03-11-2011 - Corte europea dei
diritti dell'Uomo - Grande Chambre - Sentenza 3 novembre 2011 - Ricorso
57813/00
Il divieto di fecondazione
assistita eterologa non viola la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. I
giudici di Strasburgo, chiamati a esprimersi in composizione collegiale dopo il
ricorso dell’Austria, smentiscono quanto già affermato dalla sezione semplice
il 1° aprile del 2010, quando cinque giudici contro due decisero che la legge
austriaca, impedendo la fecondazione eterologa e consentendo quella omologa,
violavano l’articolo 14 della Convenzione contro la discriminazione e
l’articolo 8 sul rispetto della vita privata e familiare.
L’inversione di tendenza - Di
parere diametralmente opposto la Grande chambre, che considera in linea con la
Carta dei diritti fondamentali il divieto imposto dall’Austria. Alla Corte dei
diritti dell’Uomo si era rivolta una coppia austriaca per la quale il ricorso
all’inseminazione eterologa era l’unica strada per avere figli essendo il
marito sterile. Il no incassato dalle giurisdizioni interne era stato
confermato anche dalla Corte costituzionale che, pur ammettendo le interferenze
del divieto sulla vita familiare, le giustificava perché finalizzate da una
parte a scongiurare la creazione di legami inusuali, come quello di avere più
di una madre biologica, dall’altra ad evitare lo sfruttamento di donne
svantaggiate.
I motivi che legittimano il
divieto - Motivazioni che la Grande camera fa sue. Il collegio di Strasburgo
non manca di ricordare che le stessa
normativa europea non si “schiera” sul tema della fecondazione omologa
lasciando agli stati un ampio margine di discrezionalità. L’ordinamento interno austriaco – sottolinea
la Corte – si limita a non consentire la donazione di ovuli e di sperma
finalizzata alla fecondazione in vitro mentre considera lecita la donazione
dello sperma per la fecondazione “in vivo”. Un paletto a metà che si spiega
anche con i molti interrogativi etici posti anche dalla rapida evoluzione del
processo scientifico. Compromessi testimoniati anche dal via libera alla
fecondazione omologa e dalla possibilità offerta ai cittadini austriaci di
recarsi all’estero per fare quanto nel loro paese è impedito.
Pur ammettendo dunque che la tendenza in molti
Stati europei è più permissiva di quanto non lo sia in Austria la Grande
Chambre nega a carico dello Stato l’esistenza di un obbligo positivo di prevedere
l’accesso alla tecnica contestata. La Corte afferma, infine, la necessità di
tenere conto che la “dissociazione” di maternità tra una madre genetica e una
madre uterina creano dei rapporti molto
diversi anche da quelli che si determinano con l’adozione.
Una decisa inversione di tendenza
rispetto a quanto affermato dai giudici della sezione semplice ad Aprile 2010
che avevano contestato la doppia violazione. Secondo la precedente sentenza,
non esisteva, infatti un obbligo dei governi di garantire l’accesso alla
procreazione medicalmente assistita, ma una volta che questo esisteva, non
poteva essere limitato alla sola fecondazione omologa.
Secondo il precedente collegio
non era, infatti, compatibile con la Convenzione una discriminazione tra coppie
con lo stesso problema. Due pesi e due misure che in Austria, come in Italia in
virtù della legge 40/2004, sono invece ammesse. Resta ora pendente alla Corte
dei diritti dell’Uomo l’analogo ricorso fatto da una coppia italiana.
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