Ospedali monastici: la cura nasce dalla fede di Francesco Agnoli, 01-11-2011,
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L’ospitalità monastica, per
secoli la più organizzata ed influente, fu promossa soprattutto da Basilio, in
Oriente, da Cassiodoro (ca. 485-580) e da san Benedetto da Norcia (480-547), in
Occidente.
Di San Basilio (329-379) si è già
ricordato che fu il fondatore del primo e più grande ospedale in Oriente. In
esso trovavano rifugio poveri, lebbrosi, bambini abbandonati…
Basilio non era solo un uomo di
religione, né solo di carità. Seguace di un Dio Logos, cioè Ragione, e Caritas,
cioè Amore, univa alla pratica dell’assistenza un forte interesse “laico”,
speculativo, per la medicina. “Non è certo che nelle istituzioni monastiche
basiliane fosse compresa in modo sistematico anche la Medicina, però ci sono
chiare testimonianze di quanto questa attività fosse presa in considerazione”.
Basilio, i cui monasteri si diffondono anche in Italia meridionale, si avvaleva dell’aiuto dei monaci, ma anche
di infermieri laici, detti “parabolani”, regolarmente pagati, che “assolvevano
l’incarico di raccogliere malati per le strade della città o nelle contrade di
campagna e di portarli negli ospedali a dorso di mulo o, più spesso, sulle
proprie spalle” .
Se ci spostiamo in Occidente,
troviamo la figura gigantesca di Cassiodoro, che nel suo monastero di
Squillace, in Calabria, “non solo raccomandava lo studio della Medicina, ma si
era assunto l’incarico di insegnare in prima persona”, e soprattutto si dedicò
a raccogliere 235 volumi di medicina scritti in greco e tradotti in latino dai
suoi monaci.
In un’epoca in cui quasi nessun
laico, né alcuna autorità politica pensava minimamente alla medicina,
Cassiodoro contribuì a salvare un patrimonio di secoli che altrimenti sarebbe
andato perduto.
Egli invitava i suoi monaci a
leggere Ippocrate e Galeno, e nello stesso tempo raccomandava di mettere le
loro conoscenze al servizio dei fratelli: “Ma a voi mi rivolgo, egregi
fratelli, che trattate con diligente curiosità la sanità del corpo umano e
rifugiandovi nei luoghi sacri eseguite una beata pietà: tristi per l’altrui
sofferenze, mesti per gli altrui pericoli, trafitti dal dolore di quelli che
intraprendete a curare e sempre, nelle sventure altrui, oppressi dal proprio
affanno, servite con cuore sincero coloro che languiscono, come conviene alla
perizia dell’arte vostra…” .
Quanto a San Benedetto, patrono
d’Europa, al capitolo XXXVI della sua regola invitava i suoi monaci a
“prendersi cura prima di tutto e sopra tutto dei malati. Bisogna servirli come
fossero Cristo stesso, che veramente è in essi e che in essi viene veramente
servito. Perché Egli ha detto: ‘ ciò che avrete fatto al più piccolo di
costoro, lo avrete fatto a me’ ”. Questa
cura fu praticata, inizialmente, all’interno del monastero, ma successivamente
il “monaco infirmario uscì dalle mura conventuali per recarsi a curare malati
nel loro domicilio…” . Ovviamente, la cura benedettina e monastica in generale,
univa la somministrazione di farmaci, di salassi, di clisteri, di decotti, di
massaggi, di elisir, di pomate, di cataplasmi, empiastri, e toccasana di vario
tipo, con preghiere, benedizioni, imposizione delle mani… Non perché vi fosse
una strana confusione, come è tipico del mondo antico, tra religione e
medicina, ma al contrario, per una chiara conoscenza, per quanto l’epoca lo
permettesse, dell’uomo, che è anima e corpo. Infatti si può dire
tranquillamente che i monaci aromatari e i frati speziali dei conventi, che
nelle loro spezierie preparavano infusi e medicamenta vari, raccoglievano,
lavoravano e descrivevano le erbe, sono stati i “primi protagonisti di una
attività farmaceutica posta istituzionalmente al servizio del malato e della
comunità” .
Nei monasteri, come si è detto,
la spinta verso l’aiuto ai fratelli nasceva dalla fede, dall’identificazione
del povero e del malato (pauper infirmus) - non vi era una chiara differenza
tra i due, anche perché la povertà era spesso, a quei tempi, causa di
debilitazione e di malattia- con Cristo
sofferente; ma questa spinta conviveva con una grande apertura verso la scienza
e le sue regole in quanto tale, come è dimostrato dal fatto che tutti i testi
medici dell’antichità sono stati conservati proprio dagli archivi monacali.
Cassiodoro, Basilio, Benedetto,
non condannavano la medicina antica, in quanto pagana, ma la valutavano, al
contrario, per i suoi meriti oggettivi, che nulla avevano a che vedere con la
religione di chi li aveva scritti.
Scrive Giuseppe Penso: “Questi
centri medici monastici non furono soltanto ricoveri ospedalieri, ma centri di
insegnamento dove accorrevano i giovani desiderosi di apprendere le nozioni
mediche dei manoscritti greci e latini, gelosamente conservati in quelle
abbazie, e dove accorrevano, da tutta Europa, malati per farsi curare” .
A Chartres, a Cluny, a san Gallo,
a Montecassino, Roma, Farfa e a Fossanova, dove i monaci curavano i malarici, a
causa delle paludi, si studiava la medicina antica e si gettavano le basi per
una medicina futura, non legata alle superstizioni popolari.
“Così, dal VI secolo al X secolo,
i monaci italiani e molti chierici insegnavano la Medicina ed esercitavano
tanto la medicina insegnata quanto quella praticata, appresa dai libri greci e
latini, distinguendola però dalla Medicina soprannaturale e dalle pratiche
religiose. Essi studiavano la Medicina come scienza. Il rispetto che avevano
per le esigenze proprie di questa scienza li portava a concepire le due
attività come ben distinte: l’esercizio clinico della Medicina andava
conseguito con mezzi naturali e in base a cognizioni scientifiche, le pratiche
religiose andavano sostenute dalla fede nel potere divino e dalla speranza
nella grazia della provvidenza” .
Era dunque riconosciuta allo
studio della Medicina, una sua “autonomia”, senza però che l’attività
caritatevole si limitasse alla cura del corpo.
Per questo il già citato
Cassiodoro raccomandava ai suoi monaci: “Imparate quindi la natura delle erbe…
ma non riponete l’unica speranza nelle erbe, non ricercate salvezza soltanto
negli umani consigli”, mentre Gerberto, successore di Benedetto, dimostrando
una notevole comprensione della distinzione tra medicina e religione,
affermava: “Nell’esercizio delle cose mediche non vale far uso della mia
autorità di abate”.
Si produsse così “tra vita
religiosa e attività medica un innesto quasi naturale, come se la medicina
avesse finalmente trovato nella chiesa il sostegno che andava cercando”. Anche
perché l’istituzione religiosa metteva “a disposizione i suoi mezzi (gli scriptoria,
i monasteri, gli ospedali, ndr) per il sostegno di iniziative scientifiche”,
destinate quindi ad una espansione che l’Antichità non avrebbe mai potuto
raggiungere .
“Nel IX secolo, scrive Giorgio
Cosmacini, l’organizzazione sanitaria di ogni grande monastero non era molto
diversa da quella vigente intorno all’anno 820 nel convento di san Gallo: un
infirmarium, o ‘infermeria’, con un cubiculum valde infirmorum, o ‘sala di
degenza per malati gravi’, e con un giardino di piante medicinali, un locale
per clisteri e salassi e un altro locale dotato di armarium”, cioè di un
armadio di libri e spesso anche un armarium pigmentorum, cioè un armadio di
medicinali” . In più, spesso, la presenza di una balnearum domus, per i bagni,
e di una domus medicorum, riservata ai medici.
Non estranea a questa storia
monastica fu la prima Schola medica medievale, la celeberrima Schola di Salerno
(che a volte viene presentata, un po’ impropriamente, come la prima
università). Scrive G. B. Scarano: “non
è da escludere che alla nascita di questa scuola abbia influito l’indirizzo di
studi e di pratica della vicina abbazia di Montecassino; è accertato che già
nel VI secolo esisteva a Salerno un chiostro benedettino con annesso
ospizio-ospedale e che a Salerno comparvero, nei secoli seguenti, numerosi
monasteri forniti di locali per il ricovero e l’assistenza di malati e
pellegrini, fenomeno questo presente, del resto, in tutte le regioni d’Italia”
.
Nei monasteri benedetti, inoltre,
si praticava in generale un’ ospitalità a 360 gradi. Infatti il monaco,
divenuto volontariamente “povero di Cristo”, doveva avere un occhio di riguardo
verso i poveri involontari (pauperes inviti, ma anch’essi pauperes Christi) e
solitamente si dedicava loro la decima parte dei redditi del monastero, delle
elemosine e dei donativi, oltre a ciò che rimaneva dai frequenti digiuni,
imposti dalla regola per insegnare ai monaci l’autocontrollo, la partecipazione
alla Passione di Cristo, l’attenzione verso i bisognosi. Per secoli i poveri
giungevano alla porta dei monasteri per cercarvi un “asilo di pace”, aiuto e
cibo.
“La liturgia dell’ospitalità”,
scrive il grande storico della povertà Michel Mollat, cominciava “alla porta
del monastero”: qui il cellario o il padre portinaio, spesso scelto per le sue
virtù, doveva distinguere tra le varie categorie di mendicanti, e dar vita al
cerimoniale di accoglienza. All’ospite si lavavano e si baciavano i piedi
(mandatum), come aveva fatto Cristo con i discepoli insegnando loro a “servire”
e non ad “essere serviti”, e poi si offriva da mangiare, in foresteria, se
malato, o nell’hospitale pauperum. Venivano forniti viveri anche a coloro che
si rimettevano in viaggio, e soprattutto
a coloro che si presentavano di giorno in giorno alla porta (pauperes
supervenientibus). “Sono ben note le razioni date a Corbie: pane, birra,
qualche volta vino, legumi, formaggio, lardo e talvolta anche carne. Si
distribuiscono anche scarpe e vestiti usati dai monaci, coperte, legna per
scaldarsi e per cuocere i cibi, utensili di uso comune. Qualche volta, a
partire dal secolo IX, si dona anche denaro”. Inoltre i monasteri organizzavano
periodiche distribuzioni, in occasione di festività come Natale, Pasqua,
Ognissanti, e la visita settimanale ai poveri ammalati nelle loro case.
L’abate Smaragdo di Verdun, nel
suo “Commento alla regola di san Benedetto”, invitava i suoi monaci alle opere
di misericordia, esortandoli a visitare gli infermi, a ricercare i poveri nel
timore che dormissero all’aperto, ad accogliere quelli di essi che bussavano
alla porta del convento, confortandoli (recreare pauperes) con gioia (libente
animo) e allegria (cum hilaritate): tra i poveri in particolare raccomandava i
fanciulli (infantes) e i vecchi, tra i quali annoverava anche i deboli di mente
.
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