Al mercato della genetica di Francesca Cerati, 01 luglio 2012, http://www.ilsole24ore.com
Anne Wojcicki, co-fondatrice
dell'azienda di genomica fai da te 23andMe – nonché moglie del boss di Google,
Sergey Brin – ha annunciato qualche giorno fa sul suo blog che la società si è
aggiudicata il suo primo brevetto dal titolo I polimorfismi associati al morbo
di Parkinson. L'annuncio ha ovviamente creato scompiglio, soprattutto tra i
clienti che hanno condiviso i dati genetici a titolo gratuito con 23andMe. «Nel
consenso informato che ho firmato dov'era scritto che i miei dati potevano
essere usati per brevettare geni? Non riesco a trovare il paragrafo...», ha
postato perplessa Holly Dunsworth. In realtà, sul documento c'è scritto: «Se
23andMe sviluppa la proprietà intellettuale e/o commercializza prodotti o
servizi, direttamente o indirettamente, sulla base dei risultati di questo
studio, tu non riceverai alcun compenso».
Wojcicki, che ha costituito
23andMe come una rete sociale copiando da Flickr e da Facebook, si difende
dietro quello che è da sempre il suo obiettivo: democratizzare la genetica. «In
questo modo siamo in grado di rivoluzionare e accelerare il ritmo della
ricerca». Come darle torto. In effetti, questi studi possono generare
rapidamente nuove informazioni e l'analisi di dati raccolti tramite social
media sta davvero cambiando la medicina. Quando a farlo, però, è un'azienda
privata che sfrutta i dati dei propri clienti, ci si chiede se non sia ora di
cambiare qualcosa, o a fare soldi sono sempre i soliti noti. Perché invece di
selezionare i soggetti di una ricerca, pagarli, seguirli, analizzarli, 23andMe
si fa pagare un servizio che poi rivende guadagnandoci altri soldi. Come se ne
esce salvaguardando ricerca e privacy allo stesso tempo? Alcuni hanno nostalgia
del passato, quando i campioni venivano donati per altruismo. Ma oggi questo
non funziona più. La rapida crescita e il crollo dei costi della lettura del
Dna hanno creato una mole di dati impressionante e molto preziosa per il
progresso della scienza. Il rovescio della medaglia è che questo ha creato un
mercato, che oggi più che mai ha bisogno di regole. Le tutele tecnologiche e
giuridiche finora usate sono infatti ormai datate e vanno riviste. Alcuni
paesi, come Germania, Svizzera e Spagna stanno valutando l'idea di offrire
diversi livelli di consenso, coi quali la persona può decidere se e come essere
informata. L'Olanda è forse la più avanti, con tre opzioni: conoscere tutto
sulla suscettibilità alle malattie, essere informati solo sulla patologia per
la quale si è stati esaminati, avere informazioni su misura. E in Italia? Il
nostro Paese – dice Alessandro Quattrone, direttore del CiBio (Centro
interdipartimentale biologia integrata) e membro del Comitato etico
dell'Università di Trento – ha regole simili a quelle di altri paesi Ue, ma che
di fatto sono inadeguate: si dividono i dati anagrafici dal campione, e
quest'ultimo si usa in modo completamente dissociato dalla persona. Però, ci
sono studi che dimostrano come sia possibile risalire all'identità anche
attraverso una frazione di Dna». Occorre perciò trovare il modo di continuare
questi studi, che danno indicazioni importanti per la salute, slegandoli dal
fattore remunerativo. «Fatto salvo che per me non si deve brevettare nulla del genoma
umano, sono d'accordo che è necessario usare l'informazione genetica per
migliorare la propria vita. Non so se questo significa democratizzare la
genetica, ma è importante che questa informazione venga interpretata dal
paziente in termini probabilistici e non deterministici. Anche perchè molti di
questi dati riguardano la sfera del wellness, che è addirittura
"pre-medico".
Sulla democratizzazione del gene
Ilaria Capua, a capo del dipartimento di Scienze biomediche comparate
dell'IzsVe, e che nel 2006 ha lanciato un network internazionale (Gisaid) per
la condivisione online dei dati genetici dei virus dell'influenza aviaria, ha
un altro parere: «Credo che la maggior parte della popolazione non sia in grado
di dare un significato all'espressione di gene piuttosto che a un altro e anzi
si corre il rischio di creare misundestanding con la lettura su internet.
Quindi non so, da questo punto di vista, quanto funzionino quindi social
network e forum. Sono invece d'accordo sul fatto che questo settore vada gestito
nel migliore dei modi, cercando un'opzione rispettosa tanto della ricerca
scientifica quanto della privacy del singolo. La "terza via" per me è
quella intrapresa dall'Olanda, che ha "scelto di poter scegliere",
con l'opzione opt-out si può decidere di entrare o meno in una biobanca e per
quanto tempo. Sul fronte consenso informato, nella mia esperienza si è
dimostrato più che altro un deterrente, che intimoriva. Nel ripensarlo
bisognerebbe puntare su una scrittura comprensibile facendo capire i benefici di
determinate operazioni». Il tempo stringe e senza che ce ne accorgiamo un
"personal gene analyser" potrebbe già spuntare dietro l'angolo.
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