lunedì 2 luglio 2012


Lettere al direttore, 1 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

Il direttore risponde
Il bene che c’è. E che serve
Caro direttore,
fare il bene non è dare o non dare denaro, 2 euro con una telefonata o 2 milioni del mio bilancio milionario per costruire un ospedale. Fare il bene è amare, perdonare, condividere, partecipare, è dare se stessi. La riflessione che le invio mi è venuta spontanea dopo una telefonata fatta a un amico.

Ho chiesto al telefono a questo amico se poteva dare un passaggio sul suo camper a un’altra amica diretta nello stesso posto dove lui va di solito con la sua famiglia. Mi ha risposto: «Carla, quest’anno non posso. Se andremo qualche giorno in vacanza, dico se, perché non siamo sicuri di andare, partiremo col treno. Il camper l’abbiamo dato a una famiglia di terremotati fino a quando non verrà loro assegnata una casa o un alloggio più comodo». Me l’ha detto come fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. Tutta la famiglia ha condiviso la decisione del papà: la moglie e i due figli.
Di qui mi è venuta la riflessione che ho scritto sopra e che continuo, senza aver la pretesa di insegnare qualcosa a nessuno.
San Francesco non ha condiviso le ricchezze, anzi, quelle che aveva le ha rese al padre. Una volta spogliato di tutto, che cosa ha condiviso? L’amore. Ha dato se stesso. Quando incontrò il lebbroso, malato che allora faceva orrore, scese da cavallo gli corse incontro, l’abbracciò e lo baciò. E da quel giorno non smise di render loro visita e calore umano.
Marcello Candia, industriale farmaceutico di Milano ha venduto tutto e condiviso la sua vita con i più poveri, si è fatto lebbroso con i lebbrosi. In Brasile ha fondato un lebbrosario, ma non si è limitato a fondarlo, si è fatto uno di loro. Non ha viaggiato, predicato, fatto propaganda, ha dato se stesso.
Questo è fare il bene.
Fratel Ettore, non aveva niente; ha cominciato a frequentare i barboni della stazione di Milano, ad assisterli, a stare con loro, a dare se stesso per loro, a cercare la carità per loro e ne è nata una famiglia straordinaria di solidarietà e di fratellanza che vive tuttora. Amava ripetere: «Se tu vedessi per strada o sotto un ponte tua madre o tuo fratello che cosa faresti? Gli daresti i soldi per un panino o lo porteresti con te, a casa tua?».
Da Reggio Emilia, una giovane amica, che sta preparando la tesi di laurea in medicina mi ha scritto: «Tante volte nelle mie mattine o pomeriggi nel reparto dell’ospedale ho sentito qualcuno chiamarmi per chiedere qualcosa. Chi con le parole, chi con lo sguardo, chi col terrore della morte negli occhi. Cerco di rispondere, di stare vicino, ma chissà quante volte non ho sentito, o ero impegnata a fare altro e non sono stata capace di ascoltare quella che era la chiamata del crocifisso che avevo davanti! Non voglio che i miei futuri pazienti diventino per me numeri tutti uguali. Non sono malattie, sono persone, ciascuno con la sua storia, il suo vissuto.
Non lascerò che i mille doveri che avrò e la burocrazia che mi sommergerà mi distolgano dal motivo principale per cui ho scelto di essere medico: dare me stessa, esserci, così voglio vivere».
E già adesso so che passa le ore libere da impegni di studio nel visitare a domicilio malati, persone sole o anziane, famiglie con figli disabili. Questo è fare il bene.
Il professor Henriquet ha fondato a Genova l’'Associazione Gigi Ghirotti' che si occupa di malati di cancro (non dico 'terminali', è un aggettivo sbagliato, si dovrebbe dire solo 'malati gravi', perché il termine della vita lo sa solo Dio). Una grande opera sociale, ma il vero bene non è solo l’opera con i suoi tanti volontari generosi e fedeli al loro impegno, il bene sta nel fatto che lo garantisce lui, di persona ogni giorno. Il suo numero di telefono è aperto anche di notte per le urgenze. Va lui stesso a visitare i malati, anche solo per fare compagnia, per ascoltarli, per dire, con la sua presenza, che non li abbandona. Lui, lui non più giovane, gira tutto il giorno in motorino su e giù per la città a portare aiuto, conforto. Dà se stesso, e questo non si chiama 'beneficenza', si chiama 'amore'. A Rimini, Giuseppina, un’amica handicappata e in carrozzella, durante l’estate ospita nella sua casa altri handicappati che, diversamente, non potrebbero andare da nessuna parte. Da Giuseppina si sentono in famiglia. Chi può capirli più di lei? Ecco la mia riflessione, caro direttore. È iniziato il periodo delle vacanze, il mio amico non potrà andare in camper in giro per l’Italia con la sua famiglia, ma è felice di aver reso meno difficoltosa la vita di quella famiglia rimasta 'senza niente'. Chissà in quanti hanno fatto, o stanno facendo, la stessa cosa con la seconda casa, il camper o un bene di cui possono fare a meno.
È facile telefonare e dare 2 euro mettendosi l’anima in pace perché si è fatta un’opera "buona" o mettere mano al portafoglio e darne 5 al marocchino o alla romena che sta alla porta della Chiesa, è meno facile rinunciare anche solo a un giorno di vacanza per regalare il corrispettivo importo a chi le vacanze non se le può permettere, perché ha perso tutto e deve ricominciare la vita con il 'niente' che gli è rimasto.
«Fare il bene è dare se stessi».
Buona estate a tutti, con affetto
Carla Zichetti, Genova

Già, fare il bene è dare se stessi. Mettersi in gioco, non tirarsi da parte. È lasciarsi contagiare da chi già fa e dà. È aggiungere un po’ d’amore a quello che c’è, immenso e mai sufficiente. L’importante è riuscire, proprio come lei, cara signora Carla, a tenere gli occhi bene aperti, a esercitare uno sguardo sgombro, a capire e ad agire. Altri e altre cose tengono banco e sembrano occupare tutta la realtà perché occupano quasi tutte le televisioni e quasi tutte le prime pagine dei giornali. Eppure il bene, la forza buona che muove il mondo e lo cambia in meglio, trova sempre nuovi volti e nomi e braccia. Scrive storie e riscrive finali tristi e dati per scontati. Fa bene sentirselo ripetere. Grazie.
Che sia davvero una buona estate.

Marco Tarquinio

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