06/09/2012 - TORINO SPIRITUALITÀ DAL 26 AL 30 SETTEMBRE - Sono i giochi
dei bimbi a distinguerci dalle scimmie - Nell'infanzia abbiamo la capacità di
imparare le "regole". L'intervento della De Monticelli a Torino
Spiritualità - ROBERTA DE MONTICELLI - http://www3.lastampa.it/
TORINO
Pubblichiamo l’intervento dal
titolo "Liberi tutti. Giocare tra norma e libertà "che la filosofa
Roberta De Monticelli leggerà domenica 30 settembre.
L’uomo è animale normativo.
Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono, per intenderci
rapidamente, in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a
norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il
senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano.
Tutta la nostra vita cosciente, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni,
pensieri, percezioni, è soggetta alla questione se sia come dovrebbe. C’è una
coscienza normativa - tipicamente, un senso di (in)adeguatezza - che attraversa
ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo
essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito, «esatto» (da
«esigere»). Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso
scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche
modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la
massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non
parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui
si parla…
Da dove viene il potere
obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione?
Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si
danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora
disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi
conosciamo un modello di «normalità» umana che è centrato sul potere
dell’interrogativo. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia ,
l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle
norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. Lungo la via di Socrate è
cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere:
la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella
politica, nella religione. La «normalità» socratica è il rinnovamento morale
quotidiano, che idealmente presuppone la libertà e la ricerca di verità, per
dare alla norma quotidiana verifica, o allora ragionevole e giusta modifica.
Husserl nello stesso spirito pensava che «etica» e «rinnovamento» quotidiano
siano quasi sinonimi. Il gioco socratico della verifica delle regole è in un
certo senso l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca,
scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose
gerontocrazie di oggi.
Oggi però sappiamo molto di più
di un tempo sulle basi naturali della cultura. Sulla differenza fra noi e le specie
più evolute di primati la scienza ha detto molto. La differenza è minima in
termini genetici, eppure enorme all’apparenza. Come mai? Michael Tomasello,
ugualmente esperto nella psicologia sperimentale dei primati e degli infanti
umani, è diventato famoso per aver individuato questa differenza nel fatto che
questa pur minima differenza ha fatto di noi degli animali cooperativi.
Tomasello ha giocato a lungo coi bambini più piccoli, e ha studiato il loro
giocare. Qui, nel loro gioco, ha scoperto quello che ci distingue davvero dai
primati. Noi abbiamo delle capacità naturali in cui questa attitudine
cooperativa si fonda. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente
copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e riprodurle: direi, afferrare
la regola che anima un gesto. Mentre le scimmie, quand’anche scimmiottino,
sanno solo «emulare»: cioè imitare l’uso di un mezzo per scopi che già hanno
indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non
imparano le regole di giochi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi.
Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il
proprio punto di vista sulla realtà, capire ce ne sono anche altri. Non sanno
condividere l’attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto. Non
sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. Non
c’è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale.
Un equivoco grava su questa
scoperta: una sorta di tesi neo-roussoviana, per cui noi saremmo allora
«naturalmente» buoni, simpatici. Èl’equivoco della naturalizzazione dell’etica:
questa starebbe già nella nostra natura cooperativa - e non soltanto
competitiva. Un equivoco, perché non è affatto il carattere cooperativo come
tale a rendere un’interazione umana, o addirittura una società umana, giusta. È
vero che le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Ma la
cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia, tanto è
vero che fin dall’inizio delle civiltà si dibatte sull’alternativa
fondamentale: la legge si fonda sulla forza o sulla giustizia? Socrate e
Trasimaco aprono una disputa che dura fino ai nostri giorni - e se la filosofia
tende a dar ragione a Socrate la storia tende a darla a Trasimaco. Il fenomeno
più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni
forma di criminalità organizzata, che è la tendenza a co-operare conformemente
al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei
all’accordo, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti
appartiene. Il modello di «normalità» che sembra oggi dominante in Italia è
quella dell’uomo di consorteria. È la soggettività così caratteristica dei
nostri giorni: la «normalità» priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva
perfino dell’ombra di un interrogativo, mera funzione di quella collettiva
della consorteria d’appartenenza. È la mentalità dell’esecutore - che sia poi
quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno
«mediatore»: il faccendiere, il referente politico per l’attività lobbistica,
il funzionario di partito, il giornalista deferente. La sua funzione è quella
del topo roditore di normatività. Si parla oggi più correntemente di erosione
di legalità, perché di questa abbiamo dati contabili, l’enorme fatturato
annuale che comporta. Ma non è che la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è
l’erosione di legalità interiore. Ne esiste una gamma quasi infinita di
varianti, a seconda del tipo di consorteria: dalle cordate dei concorsi
universitari alle cosche mafiose. Ciò che l’erosione di legalità esterna e
interiore produce, è la sostituzione della regola esplicita, che si rivolge
alla coscienza personale e alla sua facoltà di dubbio e interrogazione, con il
potere normativo della pressione sociale, la cui caratteristica è la
delegittimazione del dissenso. Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, quando
torna in auge una frase che potevamo sperare sepolta nel cimitero degli orrori
politici: «Se dici così fai il gioco dell’avversario».
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