Eutanasia, ovvero quello che i malati non vogliono - Solo il 7% chiede
la morte, e lo fa per una sofferenza morale - 5 settembre, 2012 - http://www.uccronline.it/
Come c’era da aspettarsi la
scomparsa di Tony Nicklinson (1953-2012), l’uomo inglese affetto dalla sindrome
locked-in che dal 2010 lottava per il diritto a morire e deceduto la settimana
scorsa per cause naturali, ha riacceso il dibattito sul tema della cosiddetta
«dolce morte». L’eutanasia è giusta? A certe condizioni è lecito chiedere di
farla finita oppure l’indisponibilità della vita umana è un valore «non
negoziabile», che quindi non ammette eccezioni? Queste le domande attorno a cui
non si finisce d’interrogarsi e, spesso, di dividersi.
Ci sono però, sempre in tema di
“fine vita”, anche altri interrogativi almeno altrettanto urgenti eppure quasi
sempre elusi. Per esempio: chi richiede davvero l’eutanasia? Qual è la reale
volontà dei malati? I “casi mediatici” come quello di Nicklinson sono realmente
rappresentativi delle istanze di coloro che versano in condizioni di
difficoltà? E se non lo sono, perché vengono continuamente riproposti e seguiti
dai mass media?
Uno sguardo più ampio rispetto a
quello offertoci dai titoli di quotidiani e telegiornali può farci scoprire
storie davvero sorprendenti. Come quella di madame Maryannick Pavageau,
francese affetta da oltre trent’anni dalla sindrome locked-in – la stessa di
Nicklinson – e insignita nientemeno che della Légion d’honneur per il coraggio
con cui non ha mai smesso di battersi contro l’eutanasia. Particolarmente
toccanti sono le sue parole allorquando, parlando a nome di quanti versano
nella sua medesima condizione, lamenta che sovente in risposta allo sconforto
viene loro offerta solo una cosa: il diritto a morire, ipocritamente presentato
quale «geste d’amour». Facile, a questo punto, l’obiezione: ma quello Pavageau,
come quello Nicklinson, è comunque un caso singolo. Chi ci assicura che quello
della signora francese sia un caso più significativo?
Una risposta l’abbiamo e ci
proviene dalla ricerca scientifica; precisamente dalla più vasta indagine mai
eseguita, e pubblicata lo scorso anno, proprio sui soggetti affetti dalla
sindrome locked-in. Ebbene, gli esiti di questo studio – condotto su un campione
di ben 168 persone – sono stati piuttosto netti: appena il 7% ha manifestato
pensieri o intenzioni di morte. Un dato quanto meno sorprendente se si
considera, per esempio, che è 10 volte inferiore a quello (67%) rilevato
sondando il parere degli italiani sull’eutanasia (cfr. Indagine Eurispes 2007
cit. in Cornaglia Ferraris P. “Accanimento di Stato. Perchè in Italia è
diventato difficile persino morire”, Piemme, Milano 2012, p. 90).
Cade così un falso mito, e cioè
l’idea che quella eutanasica costituisca una priorità rivendicata dai malati
più gravi, che dovrebbero essere gli esclusivi titolari del “diritto a morire”
(cfr, Casini M. prefazione a Gozzi G. “Senso e responsabilità nel suicidio
assistito e nell’eutanasia. Una riflessione biogiuridica”. Editrice Veneta,
Vicenza 2010, p. 15). Ebbene, non è così. E’ vero invece che frequentemente
taluni casi singoli, quasi sempre contrassegnati dalla volontà del protagonista
di ottenere la propria morte, divengano oggetto di interesse mediatico
prolungato, dando così l’impressione – in vero fallace e fuorviante – che
versare in condizioni difficili o drammatiche equivalga ipso facto a ritrovarsi
in una condizione orribile, insopportabile, da superarsi presto e con la morte
(cfr. Guzzo G. “Eutanasia, mass media e consenso sociale”. «Medicina e morale»
2011; 61(1):43–60).
In realtà, come abbiamo visto, a
questa diffusa percezione corrisponde un riscontro fattuale di segno opposto: i
malati non chiedono affatto la «dolce morte». E quando si verificano casi
particolari nei quali la persona chiede l’eutanasia, è bene – senza far venir
naturalmente meno il rispetto e l’attenzione che ciascuna persona merita, tanto
più se malata o disabile – considerare che non di rado quanti sono in una
condizione difficile terminale risultano affetti da depressione; uno su cinque
lo è, per esempio,tra i malati di cancro. Pertanto una richiesta di morte, più
che ad un reale desiderio – per il quale rimarrebbero comunque valide delle
obiezioni di carattere mortale, che non abbiamo qui lo spazio di approfondire –
equivale spesso ad una richiesta di aiuto o ad una sofferenza morale prima che
fisica, spirituale prima che corporea. Esemplare, a questo proposito, il
processo celebratosi «il Olanda nel 1973 contro il dott. Potsma, accusato di aver
soppresso la propria madre, malata terminale di tumore. Alla richiesta se i
dolori della donna avessero raggiunto il limite dell’intollerabilità,
l’accusato risposte: “No, non erano intollerabili. Certamente le sue sofferenza
fisiche erano aspre. Ma erano le sue sofferenze spirituali ad essere divenute
insopportabili”» (D’Agostino F., “L’eutanasia come problema giuridico”,
«Archivio Giuridico», Mucchi Editore, Modena 1987, p. 37).
Ora, stando così le cose è
doppiamente evidente come giammai la «dolce morte» possa costituire una
soluzione accettabile dal momento che – anche sorvolando il non trascurabile
lato morale – trattasi di risposta fisica ad una sofferenza morale. Una
sofferenza che deve essere individuata e affrontata con decisione ma anche, e soprattutto,
con umanità. Senza farsi tentare dalla scorciatoia d’un presunto «geste
d’amour».
Giuliano Guzzo
(www.giulianoguzzo.wordpress.com)
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