Lettori al tempo dell’ebook Più veloci meno profondi - I
neuroscienziati si interrogano su cosa succede nel nostro cervello con il
passaggio dal libro, base dell’apprendimento da almeno sei secoli, alle nuove
tecnologie digitali - MARCO BELPOLITI, LA STAMPA, 11 SETTEMBRE 2012, http://www.dirittiglobali.it/
Passando da sistemi di scrittura
fondati sull’immagine grafica, come l’egizio, al sistema alfabetico, la lettura
è diventata più agile, più veloce, e come sostengono alcuni studiosi,
l’automatismo ha liberato il pensiero: ha più tempo, prima occupato
nell’apprendimento Ma oggi con Kindle, iPad o altro, succede spesso che si
fatichi a ricordare quello che si è letto
Cosa cambia nella lettura con le
tavolette digitali? Kindle, iPad o altro, succede spesso che si fatichi a
ricordare quello che si è letto. Il libro tradizionale è tridimensionale, come
noi stessi, la tavoletta invece bidimensionale. Forse in qualche università
americana ci sarà uno studioso che si sta già interrogando su i cambiamenti che
la rivoluzione informatica degli ultimi vent’anni ha provocato e provocherà
nella nostra attività di lettura. Di sicuro l’ha fatto di recente Maryanne Wolf
in un libro molto interessante: Proust e il calamaro (Vita e Pensiero). Non
siamo nati per leggere, scrive la neuroscienziata cognitivista della Tufts
University. Il nostro cervello non è fatto per aiutarci ad apprendere a
leggere, e anche a scrivere. Per farlo deve imparare a realizzare nuovi
circuiti collegando regioni preesistenti, la cui programmazione e il cui
programma genetico ha altri scopi: dal riconoscimento degli oggetti alla
denominazione. Solo da poche migliaia di anni l’umanità legge; per farlo ha
dovuto riciclare alcune zone del cervello con risultati notevoli. Ma è proprio
grazie alla scrittura che il genere umano ha fatto notevoli passi in avanti,
nonostante che molti secoli fa Socrate avesse messo in guardia i suoi
contemporanei nel passaggio dall’oralità, fondata sulla memoria, alla scrittura
sulle conseguenze nefaste di questo cambiamento.
Ora che stiamo per varcare o,
meglio, abbiamo già varcato, la soglia verso una cultura sempre più fondata
sull’immagine, sulla vista, condizionata da enormi flussi d’informazioni
digitali, cosa ne sarà della lettura la cui specificità non è per nulla
iscritta nel nostro patrimonio genetico, ma il risultato di un allenamento
cominciato coi Sumeri e gli Egizi? Nel passaggio dal libro - la base della
nostra cultura e dell’apprendimento da almeno sei secoli - all’ebook, al libro elettronico,
cosa succederà? Continueremo a leggere? E come? Maryanne Wolf è una specialista
della dislessia. Dislessico è suo figlio Ben, dislessici erano suo bisnonno,
commerciante di successo, e probabilmente anche gli antenati del marito, e
forse qualche difficoltà deve averla avuta lei stessa, un po’ come Oliver
Sacks, che è diventato studioso dei deficit del cervello a causa di suoi
problemi, come ha rivelato nell’ultimo libro, L’occhio della mente (Adelphi).
La studiosa americana spiega che,
se non esistono specifici «geni della lettura», i dislessici non sarebbero
persone con un deficit, bensì individui in cui il cervello propende per altre
attività cognitive e di riconoscimento. Dal momento che i dislessici appaiano
dotati di altre capacità - ad esempio, abilità di tipo spaziale che
s’evidenziano nelle attività artistica -, nella società dell’immagine verso cui
stiamo andando, queste persone probabilmente non soffriranno troppo. Un
paradosso: prerogative del lato sinistro del cervello, che portano alla
dislessia in società alfabetizzate, in altre, in cui prevale invece l’immagine,
producono una spiccata superiorità. Ben, molto dotato nel disegno, chiede a sua
madre: Sono più creativo perché uso l’emisfero destro più delle altre persone?
Per questo i dislessici vengono al mondo con un cervello più creativo? La madre
lì per lì non sa rispondergli. Il principio alfabetico, sostiene, consiste
nell’intuizione che ogni parola della lingua parlata - appresa presto dai
bambini - è composta di un numero finito di singoli suoni rappresentabili con
un numero finito di lettere. Normalmente nelle società contemporanee, quelle
occidentali, fondate sull’alfabeto latino, s’impara a leggere in 2000 giorni,
là dove, nelle scuole dei Sumeri, occorrevano decenni, per via dell’alfabeto
logografico.
A metà dello scorso decennio uno
studioso di tecnologia Edward Tenner si è chiesto in un articolo sul New York
Times se Google non stesse diffondendo una sorta di analfabetismo dell’informazione
e il modo di apprendere che ne deriva non possa produrre conseguenze negative.
Oggi possiamo rispondere che si legge e si scrive di più, ma in un modo diverso
dal passato: per brevi segmenti, in modo rapido, impegnando sempre meno il
corpo nell’atto della scrittura, i polpastrelli e non più le dita o la mano.
Ciò che si modificato negli ultimi duemila anni è stato il fattore tempo.
Passando da sistemi di scrittura fondati sull’immagine grafica, come l’egizio,
al sistema alfabetico, la lettura è diventata più agile, più veloce, e come
sostengono alcuni studiosi, l’automatismo ha liberato il pensiero: ha più
tempo, prima occupato nell’apprendimento. Walter Ong, il gesuita collega di
McLuhan sostiene in Oralità e scrittura (il Mulino), che la scrittura induce
divisione e alienazione, ma anche una più salda unità, intensifica il senso
dell’io e alimenta una interazione più consapevole tra gli individui, perciò
alimenta la coscienza. Il contrario di quello che sosteneva Socrate.
Nelle conclusioni del suo studio
sulla lettura Wolf si mostra cauta sul futuro. Tavolette o personal, i giovani
lettori propendono sempre meno per un’analisi approfondita dei testi e per la
ricerca di strati più profondi, come gli insegnanti riscontrano sempre più
spesso, in ragione della immediatezza e dell’apparente completezza delle
informazioni che appaiono oggi accessibili senza troppo sforzo. Armati di
tablet e lavagne elettroniche, i nostri figli saranno destinati a una società
di «decodificatori d’informazioni», oltre che di dislessici creativi? Proust e
il calamaro non risponde. Settanta anni fa Walter Benjamin faceva la lode del
copista, sostenendo che solo chi ricopia un testo scritto riesce ad afferrarne
l’intimo significato, un po’ come chi va a piedi lungo una strada rispetto a
chi la vede dall’alto da un aeroplano. E ora che viaggiamo su navi spaziali
elettroniche cosa capiremo di ciò che leggiamo?
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