FAMIGLIA/ Ecco i due ostacoli che la frenano di Gian Carlo Blangiardo, martedì
29 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Dopo i tanti dibattiti sul
persistente grande valore dell’istituzione familiare - e in primo luogo della
sua espressione più in linea con la tradizione (genitori e figli) - sorge una
legittima domanda: se è vero che la famiglia continua a essere un solido modello
di riferimento per la popolazione italiana, come spiegare il suo progressivo
indebolimento rispetto ai processi di formazione di nuovi nuclei e del loro
sviluppo?
I dati statistici ufficiali
mostrano, con crudo realismo, l’implacabile caduta della primonuzialità (dai
circa 400mila matrimoni degli anni ‘70 agli attuali meno della metà), la
prolungata difficoltà nel transitare alla vita adulta (il 40% dei maschi e il
22% delle femmine in età 30-34anni vivono ancora in famiglia), ma soprattutto
la drastica riduzione della fecondità, che da più di trent’anni si è spinta
oltre quel confine, due figli per donna, che varrebbe a garantire almeno il
ricambio generazionale tra genitori e figli. Oggi si registra in Italia un
numero medio di figli per donna che è pari a 1,42 e che se ci si limitassimo a
considerare la sola componente con cittadinanza italiana si ridurrebbe
ulteriormente a 1,33.
Eppure, le stesse fonti
statistiche ufficiali documentano come le donne continuino ad avere un elevato
desiderio di maternità: la media è di circa 2,2 figli e anche il fatto che
oltre l’80% delle attuali quarantenni abbiano avuto almeno un figlio - quasi
come avveniva per le loro madri - testimonia una sostanziale tenuta delle
nascite di primo ordine. Purtroppo, nella fredda contabilità del bilancio
demografico di una popolazione, avere figli più tardi significa inevitabilmente
“produrne” meno.
È noto come tra i fattori che
deprimono la fecondità nel nostro Paese prevalgano le motivazioni di carattere
economico (che interesserebbero circa il 20% delle donne con uno o due figli e
il 12% di quelle con tre o più), ma anche il lavoro extradomestico rappresenta
un elemento importante per non volere un altro figlio. Si tratta di difficoltà
che rientrano nella sfera della conciliazione tra attività lavorativa e
gestione familiare e che spesso ostacolano già la transizione al secondo nato.
In conclusione, la diagnosi è chiara. Le cause più immediate della bassa
fecondità in Italia possono riassumersi in due ordini di problemi: quelli relativi
ai costi (non solo monetari) dei figli e quelli legati alla difficoltà per le
donne nel gestire il “doppio ruolo”, di lavoratrice e di madre.
Un doppio ruolo che sconta la
presenza sia di un sistema di welfare di tipo familistico - che non le supporta
attraverso l’erogazione di servizi essenziali tramite strutture pubbliche, ma
demanda principalmente tale compito alle reti informali di aiuti familiari -,
sia di un contesto di coppia ancora generalmente caratterizzato dalla disparità
di genere nella divisione dei compiti. La difficoltà nel risolvere questi
problemi si traduce in una continua attesa verso il raggiungimento delle
condizioni ottimali tanto per sposarsi quanto per avere figli, uno stato che
spesso prelude alla rinuncia, parziale o totale, della realizzazione di quello
che vorrebbe essere il progetto familiare ideale.
Su entrambi i versanti - quello
dei costi e della conciliazione - sarebbe tuttavia possibile intervenire (o
almeno iniziare a intervenire) - anche facendo tesoro dei modelli già
sperimentati con successo nella vicina Francia, così come in alcune realtà
nordiche - con opportune azioni di supporto in termini di norme fiscali e
tariffarie, di organizzazione del lavoro e di atteggiamento culturale.
E se è vero che l’intervento sul
piano economico esige risorse che oggi sono alquanto difficili da reperire,
almeno sul fronte della conciliazione un’azione efficace sembra potersi
configurare con realismo. Occorrerebbe però comprendere maggiormente non solo
quali sono le linee guida e i criteri che determinano le scelte professionali e
familiari, ma anche come avviene nella coppia il processo consapevole (e spesso
inconsapevole) di negoziazione e di presa di decisione sull’organizzazione
familiare.
Bisognerebbe altresì prendere
coscienza del fatto che la conciliazione famiglia-lavoro non si misura
unicamente con le responsabilità di cura maggiormente incombenti, bensì con
l’intero spettro di istanze di sviluppo e realizzazione personali e
relazionali. È necessario un progressivo affrancamento di questo problema dal
suo imprinting di esigenza esclusivamente femminile per interpretarlo sempre
più come una vera e propria questione familiare e sociale. In ultima analisi,
ciò comporta - come recentemente è stato autorevolmente suggerito - “la necessità
di considerare le esigenze conciliative lungo tutto l’arco di vita, di
riconoscere e valorizzare, in un’ottica sussidiaria, l’intervento dei diversi
attori sociali (istituzioni politiche, imprese, privato sociale e famiglie)
finalizzato, secondo una regolazione normativa di governance societaria, alla
compiuta realizzazione di un welfare comunitario, fondato sulla promozione di
una buona relazione tra famiglia e lavoro (CEI-Progetto Culturale, Il
cambiamento demografico, Laterza, 2011, p.15).
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