LEGGE 40/ Così la Corte ha difeso la nostra sovranità nazionale – Redazione
- venerdì 25 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Era attesa la pronuncia della
Corte Costituzionale, lo scorso 22 maggio, in merito alla questione di
legittimità costituzionale del divieto di procreazione medicalmente assistita
di tipo eterologo sancito dalla legge n. 40 del 2004.
D’altro canto l’argomento è di
quelli che fa discutere e divide, implicando il coinvolgimento di questioni ben
più ampie e fondamentali, a partire dalla concezione stessa dell’uomo e della
sua dignità, il ruolo del diritto e i principi, la fondazione dei diritti
umani, il rapporto tra scienza e diritto.
La sentenza non ha cambiato il
quadro legislativo nazionale, rimanendo fermo nel nostro ordinamento il divieto
della fecondazione eterologa.
Ciò che è mutato in pendenza del
giudizio ed ha orientato la decisione è la giurisprudenza sovranazionale.
Infatti tutta la vicenda – questione di costituzionalità sollevata e sentenza -
ruota intorno a due pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, di
contenuto opposto nei due gradi di uno stesso giudizio.
La Consulta non è entrata nel
merito della questione ma ha restituito gli atti ai giudici rimettenti “per
valutare la questione alla luce di una sentenza, sulla stessa tematica, della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3 novembre 2011 (n. 57813/00)”.
Si tratta della sentenza
definitiva pronunciata dalla Grande Chambre della Corte di Strasburgo chiamata
a decidere in secondo grado su un giudizio instaurato da una coppia austriaca
che lamentava la violazione degli artt. 8 e 12 della Convenzione dei Diritti
dell’Uomo da parte dell’Austria, che nella propria legislazione consente alcune
forme di procreazione eterologa in vivo e ne vieta altre in vitro.
La sentenza di primo grado di
aprile 2011 aveva accolto le istanze della coppia e ad essa i Tribunali di
Firenze, Catania e Milano avevano ancorato le argomentazioni di
incostituzionalità sollevate dinnanzi al Giudice delle leggi.
Successivamente è però
intervenuta la sentenza della Grande Chambre che ha capovolto, in via
definitiva, la decisione di primo grado.
Essa, infatti, ha ritenuto che il
divieto di fecondazione eterologa previsto da una legislazione nazionale non
viola la CEDU: rilevando la delicatezza della materia della fecondazione in
vitro e l’assenza tra i membri dell’Unione di una chiara sintonia in questo
ambito, ha ritenuto di riconoscere agli Stati un ampio margine discrezionale,
sia in merito alla decisione se legiferare o no in materia, sia rispetto alle
specifiche disposizioni adottate per creare un equilibrio tra interessi
pubblici ed interessi privati in conflitto.
Come visto, sia i Tribunali
rimettenti sia la Consulta hanno fatto riferimento a fonti esterne al sistema
giuridico nazionale - le pronunce di una Corte internazionale – conformemente a
quanto previsto dalla nostra Costituzione all’art. 117.
Tuttavia i Tribunali hanno preso
in considerazione una sentenza non definitiva, e proprio la riforma di tale
sentenza ha consentito ai giudici delle leggi di non entrare nel merito della
questione.
Quest’ultimo aspetto della
vicenda mette in evidenza uno dei punti più delicati del complesso iter di
integrazione del nostro ordinamento con le istanze derivanti da entità
sovranazionali.
Infatti, specialmente nel caso in
cui la pronuncia di una Corte internazionale concerne ordinamenti stranieri –
questo era il caso in questione, dal momento che la Corte di Strasburgo in
primo istanza aveva condannato la Repubblica austriaca – il giudice nazionale è
chiamato ad una sapiente opera di discernimento della ratio sottesa alla
decisione. Il rischio è infatti di affidare alla singola sensibilità di ogni
giudice, per non dire all’arbitrio, il richiamo a singoli passaggi delle più
varie pronunce della Corte europea per ricavarne regole che sovvertono
decisioni prese dagli organi rappresentativi, in maniera democratica, alterando
bilanciamenti ed equilibri del sistema.
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