Ci vuole una tribù per potersi gustare una cosa indifendibile come la
famiglia, maggio 31, 2012, Davide
Rondoni, http://www.tempi.it
In occasione del Family 2012,
dopo l’intervista al cardinale di Milano Angelo Scola, pubblichiamo
l’editoriale del numero di Tempi in edicola da oggi a firma di Davide Rondoni.
L’uomo è fatto per la tribù, più
che per la famiglia. Anche la donna, naturalmente. Quando lo affermo mi
guardano strano. Ma in fondo sanno tutti che è così. Dicono: ah, la famiglia.
Dicono così, e hanno ragione. Dedicano convegni, ritrovi, leggi. Ma devono
stare attenti, i predicatori del “viva la famiglia”. Perché l’idea che oggi è
in voga di famiglia è indifendibile. E fatalmente destinata a tramontare. La
famiglia è importante. Lo si vede anche dai guai che provoca, o dalle fatiche
che genera. Se non fosse importante, chissenefrega. Invece, si torna sempre lì,
nel bene, nel male. Lo sapeva pure Marx che indicava nella famiglia l’icona
della Sacra Famiglia da abbattere per costruire la sua società degli eguali –
con quali risultati, s’è visto.
Siamo fatti per la tribù. Nessuna
famiglia può davvero essere viva e luogo di vita se non sta dentro una tribù.
Chiamate la tribù come vi pare – clan parentale, comunità, fraternità eccetera.
Invece l’hanno ridotta a una monade, a una specie di organismo a se stante, che
dovrebbe reggere gli urti della vita e del tempo restando sospesa al millesimo
piano di un condominio di estranei, o sperduta in un reticolo di strade, in una
composizione che ormai è cristallizzata: lui, lei, un figlio (se va bene), un
cane, le fette biscottate del Mulino Bianco. Un organismo mostruoso. Una specie
di liofilizzato “Buddenbrock” (la famiglia borghese del romanzo di Thomas
Mann). È naturale che prima o poi lui morda lei o il cane morda lui o il figlio
o la figlia si sfoghino sulle fette biscottate. In crisi c’è questo modello
mostruoso di famiglia. La famiglia borghese, autosufficiente, monade,
autofondata, e isolata. Preda di ogni moda e di ogni “riflesso pavloviano”
indotto dai media e dal potere dominante. Quale ragazzo o ragazza sana di mente
e di corpo potrebbe avere come ideale di andare a infilarsi in questo cubicolo
asfittico? E infatti lo evitano come la peste. Magari a parole lo amano, se ne
hanno avuto qualche resto di esperienza positiva. Ma via, alla larga. Vogliono
aria, preferiscono la famiglia “allargata” a cui la tv di Stato continua a
dedicare fiction carucce e astute. Allargata “male” con seconde mogli,
figliastri eccetera ma pur sempre ombra e simulacro di quella che era la
famiglia tribù, un organismo vasto dove stavano non solo zii rincoglioniti e
nonni a traino, ma anche parenti vari, consanguinei di vario grado. E dove
l’amicizia di una tribù collaborava a dare sostegno, ad alleviare, stemperare,
consolare, accudire.
Non che manchino esperienze di
questo genere. Credo che le famiglie che reggono lo debbono tutte a una sorta
di appartenenza a una tribù. Se si richiama il valore della famiglia ma non si
richiama il necessario legame con una tribù, si fa del danno. Ovviamente non
sto mettendo in discussione il fondamento teologico della famiglia. Non sono né
teologo né sposo e padre perfetto. Anzi. Ma ho gli occhi e il cuore. Vedo che
le molte asfissie che schiantano molte famiglie dipendono dalla loro solitudine
– e intendo la solitudine dei singoli, che non appartengono più a nulla se non
a quel microorganismo il quale se non vive dell’aria e delle tempeste del mare,
non può che essiccarsi. Ci sono naturalmente delle eccezioni – il mondo è bello
per le sue continue eccezioni, no? Capita di vedere famiglie che paiono così
concentrate su se stesse da escludere quasi il mondo. Ma il più delle volte si
tratta di persone che hanno per così dire a tal punto interiorizzato una
dimensione di tribù che grazie ad essa “sopportano” e anzi si gustano la vita
familiare. Capita ad esempio nel caso di imprenditori molto dediti alla tribù
delle loro aziende, o a professionisti molto esposti nel servire con il loro
lavoro una comunità reale. Viva la famiglia, dunque. Se c’è la tribù.
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