La fecondazione eterologa «smonta» la famiglia - Il divieto contenuto nella legge 40,
sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale atteso a giorni, difende
valori fondamentali legati al rapporto tra genitori e figli e all’identità di chi
non deve essere generato con gameti altrui di Paola Ricci Sindoni, Avvenire, 17
maggio 2012
Nell’epoca delle playstation e dei videogiochi,
in questo tempo postmoderno, votato alla percezione fluida e frastornata della
realtà, gli adolescenti che si affacciano al mondo non smettono – oggi come
ieri, come sempre – di fare domande e di chiedere racconti. «Dove trovo me
stesso?», è l’interrogativo. E gli interlocutori primari, se sono capaci di
intercettare quelle richieste, sono i genitori, i fratelli più grandi, i nonni
in particolare, più disposti a dare il loro tempo con i racconti del tempo che
fu, che in una strana alchimia che dal biologico cresce dentro l’ordine simbolico,
ritrovano nello sguardo del più giovane, in qualche sua movenza, in quell’inossidabile
patrimonio costituito dalla catena generazionale.
Sono questi i momenti – spiegano
i dati empirici offerti dalle scienze umane – in cui il ragazzo comincia coscientemente
a percorrere l’irto percorso di riconoscimento, che è per prima cosa
riconoscimento di sé legato all’esigenza di vedersi riconosciuto da altri,
proprio attraverso quei legami genetici intrecciati a quelli culturali, che fanno
di ogni persona "simile" alla sua famiglia generativa e
"unico" nello sviluppo libero della sua personalità. Sin dalle remote
origini, dunque, l’impulso istintivo alla riproduzione porta in sé
"naturalmente" il desiderio di sopravvivenza e di proiezione verso il
futuro, là dove la vita in tutte le sue inesauribili potenzialità si
autoriproduce. Qualche volta, però, quella spontanea rincorsa si inceppa:
qualcosa di malato si insinua nella vita biologica individuale e di coppia.
Sterilità maschile e anche patologie dell’apparato genitale femminile bloccano
il desiderio del figlio; il ricorso alle tecnologie riproduttive appare allora
lo sbocco ovvio e, nonostante i grandi sacrifici fisici e psicologici, la
coppia inizia il difficile percorso, in vista del risultato desiderato.
Dentro questa pratica, che si può
chiamare di "responsabilità procreativa", ogni coppia esprime l’esigenza
imprescindibile di bigenitorialità e con essa quell’insieme di racconti serbati
al momento opportuno. Loro compito infatti non sarà soltanto garantire ogni
richiesta di cura, ma anche offrire l’ambiente più consono per la futura
identificazione del figlio dentro una genealogia, a loro consegnata e che a loro
volta riconsegneranno. Si affaccia però un altro modello procreativo,
espressione di quella libertà autodeterminata, pronta a raccogliere quanto la
scienza offre, pur di realizzare quel desiderio frustrato. Se dunque altre patologie
si affacciano, perché non varcare ancora la soglia e servirsi di altro
materiale biologico, esterno ai due genitori per garantirsi un nascituro? Da qui
la procreazione eterologa, di cui si occuperà martedì prossimo – come è noto –
la Corte costituzionale, quando deciderà se abolirne o meno il divieto,
previsto dalla legge 40.
A noi tocca continuare a pensare sull’opportunità
di amplificare l’ambito dei diritti individuali, che in questo caso nascono
dalla convinzione che il desiderio di avere un figlio è di fatto espressione di
legittimità per rivendicare un diritto. Diritto al figlio o diritto del figlio?
Viene da supporre che anche il bambino, frutto di una plurigenitorialità,
comincerà – come i suoi coetanei – a fare domande, a voler reinterpretare la
propria storia parentale, con gli occhi confusi di fronte a una figura oscura
che non conosce e che forse mai vedrà.
Come indica molta letteratura scientifica
sul tema, questo figlio di una non verità biologica non potrà che coltivare
confusione riguardo alla sua identità, che non è mai solo culturale e sociale
ma che risulta intrecciata con quella genetica. Ma c’è dell’altro: il nascituro,
pur inizialmente bene accolto dalla coppia, comincerà ad assorbire il senso di frustrazione
e di rivalità del genitore sociale nei confronti di quello biologico, quasi un
vissuto di "adulterio genetico". Non è raro infatti il caso che il
genitore "presente" nella vita familiare finisca per disconoscere la
paternità così innaturalmente acquisita. Va da sé che donare un gamete non
equivale a donare il sangue, dal momento che nel primo caso si mette a
disposizione metà del patrimonio genetico, fonte in futuro di nuove storie
biografiche e personali.
Da queste brevi considerazioni fenomenologiche
del vissuto procreativo non può che scaturire un’etica, l’etica della terza
persona, quella che, a differenza di una scelta autonomamente realizzata in
nome di una esigenza pur legittima, vede spostare l’attenzione su quanti da
quella scelta vengono inconsapevolmente coinvolti e per sempre segnati. C’è da
chiedersi al riguardo che tipo di racconti potrà aspettarsi quel ragazzo, quando
risulta così difficile, se non impossibile, coniugare dentro il suo vissuto la
componente tecnologica, l’apporto biologico, il legame sociale, il vissuto
relazionale, l’ansia di verità, il desiderio di vedersi riconosciuto nello sguardo
di un padre e di una madre.
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