sabato 19 maggio 2012


La storia, profezia sul passato - Come in medicina, è il ripetersi dei sintomi la chiave di tutto di Luciano Canfora 18 maggio 2012, http://www.corriere.it

Scriveva Leopold von Ranke in un bel capitolo della sua Storia universale che «Tucidide non era rimasto insensibile alle nuove teorie scientifiche intorno alla natura». In realtà si tratta di ben più che un modesto interesse: si tratta dell'influsso su di lui del metodo diagnostico e prognostico dalla medicina ippocratica. Il luogo classico che rivela la assunzione da parte di Tucidide di tale metodo e la estensione di esso al sapere storico-politico è il preambolo con cui egli introduce la descrizione della cosiddetta peste di Atene. Dichiara in quel passo lo storico di voler descrivere i sintomi del male dal quale egli stesso fu affetto, e che riuscì a superare, «affinché lo si possa riconoscere quando eventualmente si ripresenterà». La conoscenza, dunque, di un fenomeno che potrebbe verificarsi (cioè «futuro») è fondata secondo Tucidide sull'attento studio dei sintomi. Analogamente, quando nel proemio spiega perché ha deciso di dedicare un racconto così analitico alla guerra peloponnesiaca, da lui ritenuta la più importante di tutta la storia passata, introduce come giustificazione un argomento simile: che cioè la natura umana essendo sostanzialmente immutabile o forse modificabile in un tempo lunghissimo, eventi «uguali o simili» è altamente probabile che si ripresentino; donde la necessità di conoscere analiticamente l'esperienza già consumatasi. Il pronostico del medico e il pronostico del politico si fondano dunque entrambi sullo stesso presupposto empirico-sintomatologico.
Tucidide estende questo metodo anche alla conoscenza del passato remoto: anche in tale ambito, dove l'assenza di documentazione è vastissima, saranno i sintomi («segni») a suggerire una possibile ricostruzione di un passato ormai smarrito, e soprattutto renderanno possibile valutarne la grandezza a paragone della ben più verificabile grandezza della storia in fieri. Profezia sul passato, dunque, e profezia sul futuro, si potrebbe dire: il metodo è il medesimo; è il metodo della medicina ippocratica.
Alla luce di tale concezione, è evidente che le altre forme di «pronostico» a base arcaicamente oracolare vengano considerate da Tucidide con distacco, con ironia, se non con disprezzo. Celebre la considerazione ironica che egli riserva all'oracolo che fu rispolverato in Atene appunto in occasione dell'esplosione del contagio. Si ricordarono in quella occasione - dice Tucidide - che tempo addietro aveva circolato una profezia, secondo la quale «insieme con la guerra sarebbe sopraggiunto il contagio pestilenziale« (che effettivamente si produsse nel 430-429 a.C., cioè appena un anno dopo l'inizio della guerra con Sparta). Il fatto è che, nota ancora Tucidide, la parola indicante il flagello concomitante con la guerra inizialmente non era «pestilenza» (loimòs) ma «carestia» (limòs). Nondimeno - conclude Tucidide - ritoccarono il dettato della profezia sulla base di quanto effettivamente era accaduto ed essa risultò, se così si può dire, veridica (II, 54). Questa notazione, che potremmo definire volterriana, indica, in modo inequivocabile, la lontananza di Tucidide dal mondo magico-profetico-oracolare. È facile riconoscere in tale libertà di pensiero, in tale visione razionale dei fatti storici e naturali, l'influsso decisivo di quella fondamentale corrente intellettuale che definiamo sommariamente «sofistica» e che un grande storico del pensiero greco, Theodor Gomperz, definì «illuminismo».


Plutarco
Intorno ad una guerra così totale e alla fine disastrosa come la guerra peloponnesiaca era inevitabile che si «incrostassero» profezie, più o meno costruite alla maniera di quella che Tucidide deride. Nella commedia di Aristofane intitolata Pace (421 a.C.), la festosa accoglienza riservata al trionfo della pace, da parte dei protagonisti di quella commedia, viene disturbata dalla interferenza di un indovino di nome Ierocle che si affanna a sbraitare che non è ancora tempo, «non è gradito ancora agli dei che si interrompa il grido di guerra» (vv. 1073-1075). Effettivamente anche Plutarco nella Vita di Nicia, cioè del politico che più fortemente volle la pace stipulata nel 421, apparsa inizialmente come risolutiva, ricorda che un bel po' di fanatici andavano in giro sbraitando che la guerra era fatale che durasse tre volte nove anni, e che dunque era prematuro che il conflitto terminasse dopo appena dieci. E Plutarco soggiunge che gli Ateniesi la stipularono ugualmente quella pace «sbeffeggiando» codesti profeti di sventura.
Purtroppo la guerra ricominciò dopo alcuni anni e si sviluppò con un andamento asimmetrico. Ma a cose fatte, quando ormai Atene dovette capitolare e rinunciare alle mura e alle navi, qualcuno sfoderò l'antica profezia e, forzando un po' le cifre, cercò di dimostrare che la guerra era durata effettivamente ventisette anni.


Tucidide
A rigore, anche accettando la tesi audace di Tucidide, secondo cui si trattò di un'unica guerra protrattasi fino a che Atene non capitolò, ugualmente i conti non tornano: oltre tutto lo stesso Tucidide sembra oscillare a proposito dell'esatto inizio del conflitto, posto dapprima al momento dell'attacco a sorpresa degli Spartani contro Platea e successivamente soltanto nel momento della prima invasione dell'Attica. E quanto poi alla conclusione, essa può ragionevolmente porsi o nel momento dell'ingresso di Lisandro in Atene ormai prostrata, ovvero sei mesi dopo, quando si arrese anche l'isola di Samo, alleata fedelissima di Atene, cui era stata attribuita in blocco la cittadinanza ateniese: come dire, semplificando, che a distanza di sei mesi Atene cadde due volte.
Insomma, i propalatori di oracoli anche in questa occasione dovettero affannarsi a far quadrare i conti, mentre gli storici di formazione «realpolitica» e dotati di una mentalità aliena dal soprannaturale, ebbero ancora una volta materia per sorridere di queste cabale numerologico-oracolari.

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