La storia, profezia sul passato - Come in medicina, è il ripetersi dei
sintomi la chiave di tutto di Luciano Canfora 18 maggio 2012, http://www.corriere.it
Scriveva Leopold von Ranke in un
bel capitolo della sua Storia universale che «Tucidide non era rimasto
insensibile alle nuove teorie scientifiche intorno alla natura». In realtà si
tratta di ben più che un modesto interesse: si tratta dell'influsso su di lui
del metodo diagnostico e prognostico dalla medicina ippocratica. Il luogo
classico che rivela la assunzione da parte di Tucidide di tale metodo e la
estensione di esso al sapere storico-politico è il preambolo con cui egli
introduce la descrizione della cosiddetta peste di Atene. Dichiara in quel
passo lo storico di voler descrivere i sintomi del male dal quale egli stesso
fu affetto, e che riuscì a superare, «affinché lo si possa riconoscere quando
eventualmente si ripresenterà». La conoscenza, dunque, di un fenomeno che
potrebbe verificarsi (cioè «futuro») è fondata secondo Tucidide sull'attento
studio dei sintomi. Analogamente, quando nel proemio spiega perché ha deciso di
dedicare un racconto così analitico alla guerra peloponnesiaca, da lui ritenuta
la più importante di tutta la storia passata, introduce come giustificazione un
argomento simile: che cioè la natura umana essendo sostanzialmente immutabile o
forse modificabile in un tempo lunghissimo, eventi «uguali o simili» è
altamente probabile che si ripresentino; donde la necessità di conoscere
analiticamente l'esperienza già consumatasi. Il pronostico del medico e il
pronostico del politico si fondano dunque entrambi sullo stesso presupposto
empirico-sintomatologico.
Tucidide estende questo metodo
anche alla conoscenza del passato remoto: anche in tale ambito, dove l'assenza
di documentazione è vastissima, saranno i sintomi («segni») a suggerire una
possibile ricostruzione di un passato ormai smarrito, e soprattutto renderanno
possibile valutarne la grandezza a paragone della ben più verificabile
grandezza della storia in fieri. Profezia sul passato, dunque, e profezia sul
futuro, si potrebbe dire: il metodo è il medesimo; è il metodo della medicina
ippocratica.
Alla luce di tale concezione, è
evidente che le altre forme di «pronostico» a base arcaicamente oracolare
vengano considerate da Tucidide con distacco, con ironia, se non con disprezzo.
Celebre la considerazione ironica che egli riserva all'oracolo che fu
rispolverato in Atene appunto in occasione dell'esplosione del contagio. Si
ricordarono in quella occasione - dice Tucidide - che tempo addietro aveva
circolato una profezia, secondo la quale «insieme con la guerra sarebbe
sopraggiunto il contagio pestilenziale« (che effettivamente si produsse nel
430-429 a.C., cioè appena un anno dopo l'inizio della guerra con Sparta). Il
fatto è che, nota ancora Tucidide, la parola indicante il flagello concomitante
con la guerra inizialmente non era «pestilenza» (loimòs) ma «carestia» (limòs).
Nondimeno - conclude Tucidide - ritoccarono il dettato della profezia sulla
base di quanto effettivamente era accaduto ed essa risultò, se così si può
dire, veridica (II, 54). Questa notazione, che potremmo definire volterriana,
indica, in modo inequivocabile, la lontananza di Tucidide dal mondo
magico-profetico-oracolare. È facile riconoscere in tale libertà di pensiero,
in tale visione razionale dei fatti storici e naturali, l'influsso decisivo di
quella fondamentale corrente intellettuale che definiamo sommariamente
«sofistica» e che un grande storico del pensiero greco, Theodor Gomperz, definì
«illuminismo».
Plutarco
Intorno ad una guerra così totale
e alla fine disastrosa come la guerra peloponnesiaca era inevitabile che si
«incrostassero» profezie, più o meno costruite alla maniera di quella che
Tucidide deride. Nella commedia di Aristofane intitolata Pace (421 a.C.), la
festosa accoglienza riservata al trionfo della pace, da parte dei protagonisti
di quella commedia, viene disturbata dalla interferenza di un indovino di nome
Ierocle che si affanna a sbraitare che non è ancora tempo, «non è gradito
ancora agli dei che si interrompa il grido di guerra» (vv. 1073-1075). Effettivamente
anche Plutarco nella Vita di Nicia, cioè del politico che più fortemente volle
la pace stipulata nel 421, apparsa inizialmente come risolutiva, ricorda che un
bel po' di fanatici andavano in giro sbraitando che la guerra era fatale che
durasse tre volte nove anni, e che dunque era prematuro che il conflitto
terminasse dopo appena dieci. E Plutarco soggiunge che gli Ateniesi la
stipularono ugualmente quella pace «sbeffeggiando» codesti profeti di sventura.
Purtroppo la guerra ricominciò
dopo alcuni anni e si sviluppò con un andamento asimmetrico. Ma a cose fatte,
quando ormai Atene dovette capitolare e rinunciare alle mura e alle navi,
qualcuno sfoderò l'antica profezia e, forzando un po' le cifre, cercò di
dimostrare che la guerra era durata effettivamente ventisette anni.
Tucidide
A rigore, anche accettando la
tesi audace di Tucidide, secondo cui si trattò di un'unica guerra protrattasi
fino a che Atene non capitolò, ugualmente i conti non tornano: oltre tutto lo
stesso Tucidide sembra oscillare a proposito dell'esatto inizio del conflitto,
posto dapprima al momento dell'attacco a sorpresa degli Spartani contro Platea
e successivamente soltanto nel momento della prima invasione dell'Attica. E
quanto poi alla conclusione, essa può ragionevolmente porsi o nel momento
dell'ingresso di Lisandro in Atene ormai prostrata, ovvero sei mesi dopo,
quando si arrese anche l'isola di Samo, alleata fedelissima di Atene, cui era
stata attribuita in blocco la cittadinanza ateniese: come dire, semplificando,
che a distanza di sei mesi Atene cadde due volte.
Insomma, i propalatori di oracoli
anche in questa occasione dovettero affannarsi a far quadrare i conti, mentre
gli storici di formazione «realpolitica» e dotati di una mentalità aliena dal
soprannaturale, ebbero ancora una volta materia per sorridere di queste cabale
numerologico-oracolari.
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