Se la vendita degli ovuli diventa risarcimento, di Eugenia Tognotti, 17/5/2012,
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Se non si trattasse di una
questione maledettamente seria e con importanti risvolti etici e bioetici, si
potrebbe persino ironizzare sull'idea dell'Associazione di intermediazioni
«Altrui» con sede nel North Yorkshire, specializzata nell'ovodonazione. Perché
l'invito alle studentesse di Cambridge di «donare» i loro ovuli - con una
ricompensa di circa mille euro - sembra un frutto inedito e anomalo della
crisi, capace di configurare una sorta di lavoro, quello di «donatrice di
ovuli».
Ma, comunque la si voglia
considerare, questa iniziativa - che ha avuto una vastissima eco sui media -
non può che suscitare inquietudine e ripulsa, da molti punti di vista. Intanto,
s'impone il fatto che il volantino sia stato recapitato alle studentesse di
quella prestigiosa università, cosa che rappresenta già una scelta precisa e
con chiare implicazioni eugenetiche, data la possibilità di selezionare le
donatrici, giovani donne, studiose e brillanti, che possono assicurare al
«figlio della scienza» migliori prestazioni scolastiche e, quindi, superiori
chance lavorative e sociali. In altre parole, l'intenzione, per quanto ben
nascosta, è quella di comprare un vantaggio selettivo, di predeterminare le caratteristiche
genetiche del figlio, di violare, in qualche modo, il principio delle pari
opportunità di chi nasce. Ma donare gli ovuli non è - naturalmente - come
tagliare e cedere una ciocca di capelli: la procedura richiede l'assunzione di
farmaci e trattamenti che possono anche rappresentare dei rischi per la salute,
senza parlare di altre implicazioni. Inoltre, a dispetto dei toni felpati -
cercasi ragazza compassionevole, gentile, - la richiesta di «aiutare» due ex
laureati di quell'università che non possono avere figli, a causa di una grave
malattia genetica, si caratterizza, di fatto, come una compravendita, capace di
attirare ragazze «finanziariamente vulnerabili». Contrariamente a quanto
avviene negli Stati Uniti, dove esiste un fiorente mercato di ovuli e
spermatozoi, considerati non come organi, ma come cellule, e quindi
commerciabili, in Gran Bretagna pagare per gli ovuli è severamente vietato.
Sennonché ad aprile l'Human Fertilisation and Embryology Authority ha reso
legale la pratica del «risarcimento»: insomma, le 750 sterline che le donatrici
ricevono non rappresentano il prezzo degli ovociti, ma il corrispettivo che si
ritiene più adeguato a remunerare il tempo, i fastidi, il coinvolgimento fisico
ed emotivo che la procedura - che dovrebbe svolgersi in centri specializzati -
comporta.
Ora, non c'è dubbio che il verbo
«risarcire» sia meno odioso e d'impatto del verbo «pagare», che significa
mettere sullo stesso piano il prodotto e il denaro, farne un equivalente neutro
e impersonale. Ma qualche dubbio su questo spiraglio aperto in Gran Bretagna è
lecito coltivarlo. Le reazioni indignate sollevate dall'iniziativa
dell'Associazione «altrui» fanno, comunque, sperare che in Europa continui ad
essere proibita la compravendita di gameti, spermatozoi e ovuli, che svaluta il
valore stesso del corpo umano e alimenta un mercato che è inevitabilmente
basato su un dislivello di ricchezza e di potere tra chi compra e chi vende.
Non c'è nulla di più «naturale», di più legittimo, di più profondamente radicato
nell'antropologia dell' umanità, del bisogno di una discendenza. E, per
converso, di più doloroso del fallimento di una capacità biologica, dello
scacco psicologico della coppia «sterile». Detto questo restano sul tappeto
questioni cruciali che riguardano non solo il «vendere» e il «comprare» gli
ovociti, ma i confini fra corpo e tecnologia e tra natura e legge, il destino
delle generazioni presenti e future, il senso della paternità e della
maternità, l'architettura dei sentimenti.
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