MONSIEUR LAZHAR/ Un "abbraccio" tra maestro e alunno capace
di battere il dolore - Redazione Maria Luisa Bellucci, giovedì 13 settembre
2012 - http://www.ilsussidiario.net/
Esiste un universo di dolore con
cui tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Un mondo in cui non ci sono
rumori se non quello assordante del silenzio. Del vuoto che rimbomba. In cui ci
si trova a danzare una coreografia casuale nel tentativo di dare colore a
quello spazio bianco. Philippe Falardeau dipinge Monsieur Lazhar, un film molto
delicato, come una poesia che nasconde sotto un velo di immagini un senso
inaspettato, profondo, pungente. Catartico, alla fine. Per Bachir Lazhar
(Fellag), che si trasferisce in Canada dall'Algeria e ora deve fare i conti con
la morte della moglie, bersaglio di un attentato. Per tutti i bambini che in un
giorno di scuola qualsiasi vengono sfiorati da un dramma troppo grande per la
loro innocenza. Il suicidio, in classe, della loro maestra.
È molto bravo il regista a
raccogliere temi spinosi dentro una storia semplice nei fatti - ma non per
questo priva di drammaticità -, nell'ambientazione e nei volti. Forse è merito
dell'ordinarietà dello spazio che delimita le vicende. Quello della scuola.
Luogo di vita quotidiana e che appartiene alla memoria di chiunque. Falardeau
mette, insomma, a proprio agio lo spettatore, dichiarando che il territorio su
cui si avventurerà nell'ora mezza del film non è insidioso. Spiazza la platea, invece,
e ne conquista il cuore con un crescendo di situazioni ed emozioni di fronte
alle quali, presentate senza preavviso, si resta senza parole.
Ferita dell'abbandono (qui nella
forma irreversibile della morte), liberazione dal senso di colpa, integrazione
razziale. Sono questi i temi che si dipanano all’interno della piccola scuola
canadese. Che diventa luogo di incontro e condivisione. Di amicizia e amore. Perché
è qui che si conoscono l'anima ferita di Bachir Lazhar e quelle dei bambini
della sua classe. Insieme non solo condividono lo spazio, il tempo e il sapere,
ma soprattutto il dolore della separazione. Violenta. Si, perché violenti sono
stati gli addii di Martine, la maestra che Bachir sostituisce, e della moglie
dell’algerino.
Forse è questa la parola chiave
del film. Violenza. Nel suo senso positivo, se è vero che ce n'è uno. Intesa,
cioè, come potenza espressiva. Che lascia senza spiegazioni all’interno di un
vuoto acuto, gomitolo di sensi di colpa nati nel silenzio di quello spazio. Il
senso di colpa di essersene andato. Di essere sopravvissuto. Del non esserci
stato o, più semplicemente, del sentirsi la causa di quanto è successo.
E’ violenta anche in questo la
storia. Non solo nell'aver corrotto i muri bianchi dell'infanzia, ma anche
nell'aver fatto vivere in un bambino il senso di colpa per un gesto più grande
di chiunque. In questo, nell'assoluzione che Bachir riconosce a Simon (Emilien
Neron), la classe diventa anche luogo di amicizia e amore. Di scambio. Di
integrazione. Bachir sostituisce i genitori in chi non li ha, è educatore nel
dettare principi ferrei, “antichi”, di buon senso e rigidi nei quali si porta
appresso da un luogo lontano nello spazio e nel tempo il sapore della vita che
fu sua. Deve imparare. Anche. Aggiornare la sua personale lista di regole
grammaticali. E così accade che Falardeau costruisce un film in cui non solo è
in grado di far parlare il cuore, ma pone la questione dell'integrazione
razziale al centro del testo. In modo sottile e intelligente.
Se Bachir assume le fattezze di
un angelo salvatore verso Simon, nel suo caso è la piccola Alice (Sophie
Nelisse) a interpretare questo ruolo. Mettendo la propria curiosità al servizio
della mente colta dell'algerino e scardinando il muro - anche fisico - che la
scuola impone tra maestro e alunno. Ogni lacrima trova senso in un abbraccio
liberatorio. Conciliatore. Che cancella con un colpo di spugna il dolore di un
domani che ci separa da chi amiamo e ogni colpa passata e presente.
© Riproduzione riservata.
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