Se i quiz salgono in cattedra a scuola - Giorgio Israel - 03/09/2012, Il
Messaggero, http://www.flcgil.it
NON si può che ammirare chi ha il
coraggio di sedersi su una poltrona difficile come quella della Pubblica
Istruzione. Da anni ogni ministro riceve in dote dal precedente un’eredità
sempre più pesante, per l’accumularsi di problemi aggravati da mediocri
compromessi politico-sindacali e da cattive riforme ispirate all’ideologia
anziché al buon senso, una merce ormai rara nel sistema dell’istruzione. Quindi
l’unica via per un ministro è perseguire il difficile dosaggio tra una grande
determinazione nel tagliare nodi aggrovigliati fino all’inverosimile e una
grande saggezza nel tener conto di esigenze tutte rispettabili.
È una miscela necessaria di
fronte al lascito di personale scolastico precario e all’esigenza di aprire una
porta ai giovani; perché un sistema dell’istruzione che non sia alimentato da
nuovi apporti innestati con continuità sulle esperienze precedenti è destinato
a sicuro declino. Inoltre, occorre por fine alla prassi disastrosa
dell’immissione in ruolo di nuovi insegnanti senza verifiche di merito.
Pertanto, la scelta del ministro Profumo di ripartire un contingente di posti
per metà al fine di sanare le situazioni pregresse e per l’altra metà per far
svolgere un concorso, va considerata come una decisione coraggiosa ed
equilibrata. Purtroppo le buone intenzioni non bastano.
Pare che il concorso sarà
riservato agli abilitati, il che, in linea di principio, è sacrosanto. Ma nei
fatti non si conferiscono abilitazioni da anni né si avranno nuovi abilitati –
con i Tfa, Tirocini formativi attivi – prima di un anno, per cui si rischia di
fare una sola cosa, ossia assumere precari, con due modalità diverse. Non
sarebbe meglio far svolgere il concorso al termine del primo anno di Tfa? Si è
anche proposto di aprirlo agli ammessi ai Tfa, sotto la condizione che
conseguano l’abilitazione.
Ad ogni modo, una soluzione va
trovata, altrimenti i più giovani si troveranno di fronte alla solita porta
chiusa, che tale resterà per chissà quanto tempo. Difatti, sarebbe un miracolo
se il proposito di bandire concorsi «leggeri» a brevi intervalli finalmente si
realizzasse.
Sorvoliamo sui problemi enormi
che pone un concorso «pesante», soprattutto se aperto da un test preliminare di
«scrematura», indispensabile dato il numero enorme dei candidati. Si è parlato
di un test unificato per tutte le classi di concorso mirato alle capacità
«logico-deduttive» il che suscita allarme, soprattutto ove si pensi ai disastri
passati dal concorso per dirigenti scolastici a quello per i Tfa. Ma lasciamo
da parte la tematica dei test per porre un problema più generale di cui essa è
solo un aspetto.
Di anno in anno, gli adempimenti
e le verifiche che si accumulano sul sistema scolastico crescono come una palla
di neve che diventa valanga. La quantità di scartoffie che incombono su
insegnanti e dirigenti cresce esponenzialmente. Ora si prospetta
l’autovalutazione delle scuole mediante griglie fornite dal ministero, poi la
valutazione mediante commissioni ispettive gestite dall’Invalsi (l’Istituto di
valutazione del sistema scolastico), poi la formazione in servizio gestita
dell’Indire (l’Istituto di documentazione e ricerca educativa) e così via.
Un’immensa macchina burocratico-amministrativa si appesantisce sempre di più
sulla scuola. La massa di prescrizioni e direttive si infittisce lasciando
sempre meno spazio alla libertà metodologica personale, e restringendo il tempo
dedicato all’insegnamento propriamente detto.
Nell’ambito della politica
economica è difficile trovare chi sia contrario alla crescita: ma poi ci si
divide (anche in modo politicamente trasversale) sull’idea se vada perseguita
con interventi dirigisti o rimuovendo i vincoli che intralciano lo sviluppo
delle forze produttive. Non diversamente nel campo dell’istruzione: c’è chi
pensa che la crisi della scuola si possa superare con un controllo sempre più
stringente dall’esterno – da parte di «tecnici» – e chi pensa che occorra
mettere in atto solo i meccanismi che favoriscono l’emergere delle forze
migliori. Per i primi la valutazione del merito si fa a monte, per i secondi a
valle. I primi vedono il ministero come un controllore onnipresente, i secondi
gli attribuiscono il ruolo di favorire discretamente e costruttivamente
l’evoluzione positiva del sistema.
Il ministero italiano, per una
lunga tradizione, propende a un dirigismo che sta diventando ipertrofico,
parossistico, ed è sostenuto da ideologie didattiche soffocanti. Non esitiamo a
dire che sarebbe auspicabile che il ministro si orientasse a contrastare
tendenze più adatte a un paese totalitario che a una democrazia liberale. Si
risolverebbero così anche tanti disastri (si pensi ancora ai test) che sono
conseguenza del potere eccessivo di «esperti» che valutano il «prodotto» senza
sapere cosa contiene, e cioè sulla base di analisi statistiche e dati
quantitativi e formali nell’ignoranza completa dei contenuti in gioco.
Non è elementare buon senso che
prima di escogitare rimedi per la scuola si faccia un’analisi dei suoi mali? E
chi ha mai fatto una simile analisi in modo serio, ovvero sui contenuti, e non
limitandosi a statistiche di dubbia interpretazione? Per esempio: chi ha mai
fatto un’analisi seria dei contenuti che circolano nei libri scolastici? E
questo non per imporre questo o quel modo di insegnare ma per aprire un
dibattito di merito che solo può far migliorare la qualità dell’insegnamento.
Inutile dire che, oltre ad avere
buoni testi, vorremmo avere buoni insegnanti. Il ministro ha recentemente
proposto la sua visione di come deve essere un buon insegnante. A noi pare che
sarebbe meglio non impelagarsi nel tentativo di definire una figura tanto
complessa. Tuttavia, se proprio dovessimo scegliere la definizione preferita,
ricorderemmo quella di Hannah Arendt: l’insegnante è colui/colei che «si
qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in
proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la
responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i
cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo».
E così facendo – osserva Arendt – fornisce al giovane gli strumenti per
avanzare liberamente con le proprie gambe.
Secondo il ministro l’insegnante
deve saper stabilire e gestire buone relazioni con gli studenti, saper stare
bene in classe, e alternare la sua posizione di docente con quella di discente,
lasciando talora la cattedra agli allievi. A parte quest’ultimo aspetto che
riporta a sessantottismi di cui non v’è proprio bisogno, la figura che emerge è
quella del «facilitatore» nell’ideologia dell’autoapprendimento. Sapere star
bene in classe e gestire bene i rapporti con gli allievi è molto importante, ma
non crediamo che si tratti di una scienza codificabile.
Colpisce l’omissione di un
requisito cruciale: che l’insegnante sia colto, che conosca la sua materia.
Tolto questo, tanto varrebbe affidarsi a Pippo Baudo, che certamente ne sa più
di certi teorici dello «stare in classe», che propinano i loro precetti nel
modo più noioso, cattedratico e trasmissivo che si possa immaginare. Abbiamo il
ricordo di insegnanti non molto capaci di gestire la classe, ma dotati di una
cultura tale da lasciare una traccia indelebile sugli allievi; ed altri,
brillanti e simpatici quanto vacui.
Migliorare il mondo
dell’insegnamento si può. Mettere le brache al mondo è tipico delle visioni
illiberali. Se poi riduciamo i contenuti dell’insegnamento a un «optional», a
qualcosa che può essere «costruito» pescando indifferentemente ovunque, senza
distinguere tra libri seri e Wikipedia, possiamo scommettere sul definitivo
declino della scuola italiana.
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