Avvenire.it, 24 settembre 2011, L’uomo e la gabbia del corpo
tecnologico, MAURO MAGATTI
Un assaggio l’abbiamo avuto negli
Stati Uniti. Dove negli ultimi 30 anni per sostenere la crescita, che sarebbe
altrimenti crollata, il sistema finanziario (e politico) ha incentivato un
indebitamento abnorme dei privati, facendo leva sul desiderio di beni e
consumi. Ma per Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica di Milano e
protagonista domani pomeriggio al Festival del Diritto di Piacenza, il pasto
deve ancora arrivare. Se questo modello di sviluppo continuerà, senza una
riflessione e una correzione radicale delle sue storture, ne avvertiremo le
conseguenze direttamente sulla nostra pelle. O meglio, sul nostro corpo.
Professore, quali sono di preciso
i rischi che vede all’orizzonte?
«La crisi attuale segna la
conclusione di un ciclo di crescita che è cominciato all’inizio degli anni ’80.
I due vettori di questa fase di grande espansione sono stati la
globalizzazione, ovvero la creazione di un’infrastruttura planetaria coerente
con il processo di razionalizzazione tecnico-economica occidentale, e l’impiego
dello stimolo comunicativo e della creazione immaginifica, attraverso la
pluralizzazione del sistema dei media: cioè i consumi sono stati sostenuti
facendo leva sui sensi e sull’immaginario collettivo. La crisi, che nasce
laddove la finanza internazionale è arrivata uno dei punti di massima
espansione, dove il sistema tecnico-economico ha raggiunto un massimo di
efficienza e anche di astrazione, ci porta in una situazione in cui entrambi i
vettori cambiano».
In che modo?
«Il primo vettore cambia perché
in quella che chiamo la "seconda globalizzazione" si passa da un
modello di espansione monocentrato, governato dai Paesi occidentali, a un
modello plurale, dove la competizione sarà molto più stringente; il secondo
vettore cambia invece perché, sul piano dello stimolo sensoriale e
comunicativo, ci troveremo con i Paesi occidentali significativamente
invecchiati, "ingrassati" e magari anche un po’ depressi… per cui è
difficile pensare che quello stesso meccanismo di stimolo sensoriale possa
sostenere una crescita quantitativa dell’economia».
Perché questo dovrebbe avere
conseguenze che toccano i nostri corpi?
«Uno degli scenari che considero
regressivi, una delle vie di uscita che indico come temibili, è che per far
fronte a questa nuova situazione – la maggiore esigenza di competizione che la
seconda globalizzazione porta con sé e la necessità di sostenere i consumi non
più con lo stimolo sensoriale e comunicativo ma più in profondità, con una
popolazione un po’ invecchiata e depressa – si punti su un’efficientizzazione
tecnica applicata direttamente al corpo umano. E questo in una duplice
direzione: da un lato spostando il baricentro di ciò che chiamiamo
sanità/salute verso la massimizzazione delle performance fisiche, cioè
riorientando il sistema sanitario dalla cura delle malattie alla ricerca di
mezzi per renderci più efficienti, più potenti, più espansivi. Tracce di questa
tendenza ci sono già: basti pensare banalmente al ricorso alla chirurgia
estetica. La seconda direttrice potrebbe essere quella di aumentare
l’interazione tra uomo e macchina. Per esempio, nell’ambito delle neuroscienze
si sta studiano il ruolo delle emozioni nel momento della scelta e la
possibilità, intervenendo a livello biochimico, di rendere le scelte più
efficaci. Penso quindi all’utilizzo di forme che possano migliorare la
prestazione umana dal punto di vista della sua efficienza tecnica, associata a
una macchina. Queste due mi sembrano le direttrici più forti e anche più
preoccupanti».
Una barriera a queste derive non
potrebbe essere la consapevolezza, radicata nel senso comune, che la corporeità
non è qualcosa di manipolabile a piacimento, che porta in sé suo disegno
naturale e in parte inviolabile?
«Questo di cui stiamo parlando è
una possibile evoluzione di quel processo che Max Weber chiamava
razionalizzazione, dove per razionalizzazione si intende il restringimento
dell’idea di ragione alla razionalità rispetto allo scopo, applicata attraverso
lo strumento tecnico. Weber parlava di gabbie d’acciaio, come se l’uomo Occidentale
rimanesse prigioniero di questa logica. Questo processo, da quando è in atto,
al di là della sua forza e della sua rilevanza, taglia fuori intere parti della
realtà, è un riduzionismo sia della ragione sia della realtà ed è abbastanza
illusorio pensare che si possa affermare e dispiegare senza reazioni. Quelli
che indico sono scenari possibili, temibili e su cui riflettere. Ma è vero che
proprio mentre ci sono spinte che vanno in una certa direzione, ci possono
essere energie e forze in grado di contrastarle e contenerle».
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