CERTEZZA/ Barcellona: prevarrà la Verità o l'angoscia dello straniero? Di
Pietro Barcellona, il sussidiario.net, lunedì 26 settembre 2011
“E l’esistenza diventa un’immensa
certezza”. Questa frase è diventata il titolo della relazione al Meeting di
Rimini di Costantino Esposito: una complessa rielaborazione del rapporto fra la
condizione umana e il senso di incertezza sul futuro che spesso la pervade
attraverso le diverse forme in cui si è presentata nella storia, dando vita a
riflessioni filosofiche e a istituzioni politiche come lo Stato sociale. La
riflessione di Esposito è molto ricca e meriterebbe una discussione analitica.
È un confronto molto serrato, ma lascia intravedere un filo conduttore sul
quale si può provare ad esprimere qualche considerazione.
Per Esposito il bisogno di
sicurezza è originario e rappresevinta una sorta di destino dell’essere umano a
interrogare l’Altro per chiedere accoglienza ed ascolto. A questo bisogno
primordiale si sono date risposte istituzionali, come lo Stato Sociale, e
risposte filosofiche come quelle della Scolastica e poi della grande filosofia
tedesca. Oggi sembra che tutte le risposte politico-istituzionali e filosofiche
siano andate in crisi e che c’è una necessità di ripartire dall’origine. Per
Esposito questa origine si rintraccia nella relazione originaria del piccolo
d’uomo con la madre che, accogliendolo e nutrendolo al seno, produce una
certezza primaria alla quale è sempre possibile tornare per attingere risorse
contro la crisi di ogni sicurezza. Questo ritorno all’esperienza originaria,
però, può essere produttivo di fiducia nella certezza dell’esistenza se
ripercorre la via del Cristo che si fa Uomo per salvare l’umanità.
Nell’incontro con Cristo si può ritrovare la certezza perduta.
Nonostante la forza suggestiva di
questa proposta, penso tuttavia che il percorso seguito da Esposito sconti
alcune delle “confusioni” di piani e di esperienze che caratterizzano assai spesso
la riflessione contemporanea.
Ho sempre pensato che bisogna
partire dall’esperienza e dalle pratiche attuali per cercare di riformulare le
domande fondamentali sulla nostra condizione e vorrei perciò provare a
delineare un percorso parzialmente diverso da quello che ha disegnato Esposito.
Si può leggere frequentemente sui giornali che un operaio licenziato si è
suicidato, sembrerebbe a causa della disperazione che ha provato sentendosi
impotente di fronte alla sua condizione di disoccupato, incapace di sostenere
la famiglia. Come tutti sanno, l’episodio del suicidio, sia pure come estremo
evento della crisi, non è così estraneo all’esperienza dei nostri giorni da non
interrogarci sul significato che fatti così estremi hanno per la comprensione
del nostro mondo. La perdita del lavoro viene presentata su tutti i media come
una conseguenza inevitabile della crisi economica e della crisi dello Stato
sociale.
È dagli anni 70 che la crisi
dell’economia capitalistica e dello Stato sociale scandisce i momenti della
nostra vita collettiva e del dibattito pubblico. E al di là delle spiegazioni
che si possono dare, si può sicuramente affermare che questa crisi oramai
irreversibile produce insicurezza nella vita quotidiana circa le aspettative
più elementari della possibilità di soddisfare il fabbisogno familiare, di far
parte di una comunità di lavoro e persino di essere riconosciuti come cittadini
di una nazione. Il disoccupato è un escluso per definizione dal mondo della
socialità produttiva e per ciò stesso considerato un essere socialmente
inutile. La domanda che mi pongo però è se il suicidio, e cioè il No alla Vita
possa essere spiegato semplicemente con la condizione di disoccupazione ed
emarginazione sociale. Penso di no, e penso che alla base di questa semplificazione
sociologica ci sia una fondamentale incomprensione dei nostri problemi epocali.
Da cosa può dipendere il fatto che la perdita della certezza del lavoro produca
una rottura così drammatica con la possibilità di continuare a vivere la
propria esistenza? Certo, ci deve essere un legame più profondo di quello che
riusciamo a scorgere tra il rifiuto della vita e il sentimento di essere
esclusi dal mondo, ma questo non si spiega con un puro riproporsi dell’antico
bisogno di sicurezza che l’uomo avverte nascendo e che viene frustrato dalla
società contemporanea.
Penso che questo problema della
certezza come sicurezza sociale del lavoro e dell’accesso al mondo pubblico dei
consumi e della soddisfazione dei bisogni elementari sia la conseguenza
avvelenata di una “Secolarizzazione” del problema del rapporto dell’uomo e del
senso della Verità dell’Essere che si è prodotto nella modernità attraverso un
vero e proprio salto antropologico dall’uomo della tradizione, che abitava un
mondo garantito da autorità trascendenti, a un uomo della modernità che,
diventando assolutamente arbitro del proprio destino, si trova a misurare se
stesso soltanto con il proprio “successo”. Le aspettative di certezza prodotte
nella modernità sono infatti la secolarizzazione dell’antico bisogno di
salvezza che l’uomo si è posto allorché ha scoperto la contingenza e la
caducità della sua esistenza. L’uomo antico, o comunque pre-moderno, aveva
vissuto il rischio del vivere come un Ulisse che cerca con le sue risorse umane
e sociali - il gruppo dei suoi compagni di avventura - di raggiungere le
colonne d’Ercole per scoprire il segreto del mondo: l’avventura della Verità dà
il senso alla vita, giacché essa non è un’evidenza ma un mostrarsi solo a chi
mette in gioco se stesso per cercarla. L’uomo medievale aveva trovato nella
concordanza tra il progetto divino e la sua vita mortale la via provvidenziale
della salvezza: la Verità è la creazione divina del mondo e il posto che l’uomo
si trova a ricoprire sulla terra in attesa di ricongiungersi al Regno di Dio.
L’uomo moderno, al contrario, scarta ogni ipotesi che il suo senso dell’Essere
possa essere affidato ad una Verità Trascendente, a qualche cosa verso cui
tendere attraverso prove e dolori, dolori e fatiche, senza essere mai sicuro di
raggiungere la meta, e si pone invece al centro come il padrone del sapere che
gli può consegnare la Verità dell’esistenza attraverso il dominio sulla natura.
Avviene così la secolarizzazione
della Verità che si trasforma in certezza delle conquiste scientifiche e delle
conquiste politico-sociali. Al posto della Verità si insedia il Progresso come
costruzione umana della “città felice” in cui desiderio e oggetto possano
coincidere definitivamente. Questa secolarizzazione della Verità, trasformata
in certezza del risultato, ha avuto una doppia funzione nella storia degli
ultimi secoli: ha funzionato come anestetico dell’angoscia di morte, che l’uomo
pre-moderno traduceva nella ricerca dell’Ultrasensibile, e ha trasformato il
bisogno di trovare risposte affettive al proprio dolore di esistere in una
richiesta di prestazioni alla Chiesa o
allo Stato che avevano il compito di attuare un nuovo tipo di maternage. La socialdemocrazia
prometteva di assistere l’uomo dalla culla alla tomba senza lasciarlo mai solo
con i suoi problemi esistenziali. La Chiesa assicurava compensi ultramondani
che lenivano la sofferenza degli afflitti e avevano tuttavia il senso di una
consolazione dal presente. Ma consolazione e assistenza sociale erano sempre
nella loro sostanza anestetici che negavano la profondità dei problemi della
vita e producevano perciò un’organizzazione sociale nella quale deperivano le
ragioni dell’approfondimento e della ricerca dei rapporti tra le persone e la
comprensione del sé profondo.
In questa fase noi viviamo la
crisi della certezza secolarizzata e cioè il fallimento della promessa che
tutti i problemi dell’essere umano possano essere risolti con gli strumenti che
la scienza e il sapere scientifico forniscono per addomesticare la natura e per
produrre ricchezza materiale. Si è completamente dimenticata la lezione
evangelica che “non di solo pane vive l’uomo” e anche la lezione greca che
l’uomo non ha in se stesso le risorse per diventare un Dio. Paradossalmente la
secolarizzazione ha posto sul trono divino la scienza e la Tecnica, promettendo
un futuro certo sul terreno dei bisogni elementari all’intera umanità. La crisi
della certezza che stiamo vivendo è dunque una crisi di un intero modello di
civilizzazione e di un modello antropologico fondato sulla totale
autosufficienza dell’essere umano. Ciò che ricompare drammaticamente
nell’esperienza del suicidio o della violenza assassina, nella voglia di
uccidersi e di uccidere che esplode all’interno delle nostre società, è la
negazione del bisogno di Verità che l’uomo ha avvertito sin dai primi momenti
in cui ha pensato se stesso come un mistero, chiedendosi come il poeta: “perché
giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale, me, s’io giaccio in
riposo, il tedio assale?”
Il mal di vivere è una rinuncia
alla ricerca della Verità come ciò che sta in se stessa di fronte a noi,
nascondendosi e svelandosi ma senza dipendere dai nostri sentimenti e dalle
nostre costruzioni. Sotto questo profilo la domanda di certezza oggi si
intreccia con la domanda di verità e per questo si può dire che ancora una
volta gli uomini hanno fame di verità e giustizia ed è certamente assai
stimolante la lettura dell’enciclica del Papa sulla Verità e sulla Carità. A
differenza della certezza, infatti, che ha a che vedere essenzialmente con il
calcolo razionale, con la probabilità del successo e con la scoperta di nessi
causali, ed è perciò sempre il risultato dell’azione soggettiva (qualsiasi
oggettivazione della certezza non sfugge all’imputazione ad un Soggetto,
Partito, Stato, Chiesa, Scienza), la Verità esiste in sé e per sé, e si
presenta solo nella relazione d’amore tra due persone.
Il riferimento che Esposito fa al
rapporto fra la madre e il bambino è da questo punto di vista interessante, ma
di per sé insufficiente. La madre, infatti, sappiamo tutti che può essere anche
cattiva e, come la psicoanalisi ci ha insegnato, il piccolo d’uomo si trova
spesso a fronteggiare un seno ostile e malvagio. Non c’è dunque una garanzia
naturalistica affidata soltanto al rapporto madre-figlio che dispiega
l’apertura dell’essere umano verso l’incontro con l’Altro e quindi verso la
reciprocità amorevole nella quale abita la Verità. Perché ciò accada è necessario
che un intero gruppo umano abbia elaborato l’esperienza “indicibile” della
nascita e dei primi giorni di vita come metafora della venuta al mondo che, di
per sé, esprime una vocazione all’incontro e che solo e quando questo incontro
si realizza ha veramente accesso alla propria rappresentazione come quella di
un essere umano che comincia l’avventura della vita. Il rapporto con la madre è
certamente essenziale ma non è di per sé una garanzia di adesione e di assenso
alla vita se essa non viene mediata dalla cultura, che la stessa madre, o anche
un’altra “nutrice”, può rappresentare come incarnazione vivente delle
generazioni passate: è l’esperienza di un primo incontro amoroso con una
Persona che invita all’accoglienza dei nuovi esseri umani come garanti della
vita che si riproduce attraverso l’amore.
Non penso quindi che la sola
esistenza possa produrre una nuova certezza, ma soltanto una profonda
trasformazione dell’assetto mentale e affettivo degli uomini contemporanei
rispetto ai problemi fondamentali della vita e della morte. Solo patendo fino
in fondo il dolore della mortalità gli uomini potranno recuperare il senso di
una nuova nascita. Perché mettere al mondo figli che poi bisogna consolare? È
una domanda ancora inquietante, se l’uomo non rinuncia alla volontà di potenza
che gli ha fatto creare gli anestetici verso tutti gli aspetti negativi che
comunque si incontrano nella vita. Ciò che è necessario per riconquistare il
percorso della verità è allora paradossalmente quello di rinunciare alla ricerca
di certezze illusorie, come quelle che ogni giorno ci promettono la scienza e
l’economia, e mettersi sulla strada della grande ricerca del Mistero dell’uomo
che spinge continuamente ad oltrepassare i confini di ciò che sembra acquisito
una volta per tutte. Non bisogna cercare soluzioni ma nuove domande e, anzi,
convincersi che spesso le soluzioni uccidono la domanda. Come ho detto a
Rimini, occorre che gli uomini, come Ulisse, trasformino i remi delle loro
piccole cose in ali verso il grande sogno di ritrovare un’armonia cosmica. La
via di questa ricerca può condurre alla ineludibile questione di Dio. La via
dei farmaci può produrre soltanto nuovi anestetici. Non so se sono riuscito ad
interpretare il senso della relazione di Esposito, ma mi è sembrato che nel suo
discorso ci fosse un’oscillazione fra una nozione di certezza secolarizzata e
una nozione di certezza che più si avvicina al tema delle Verità fondamentali.
Ad ogni modo, ciò che bisogna
approfondire è come la negazione moderna del fondamento di verità della vita
umana si rifletta poi nell’esistenza quotidiana e nella richiesta di sicurezze
parziali ed effimere che caratterizzano il nostro tempo. Capire cioè che non
sarà certamente l’espulsione degli immigrati a liberarci dall’angoscia dello
straniero che affonda nell’esperienze primordiali della vita.
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