Sono questi giorni forieri di
grandi rivoluzioni scientifiche? Pare proprio di sì: appena una settimana prima
della notizia che i neutrini sono più veloci della luce, un’altra scoperta,
pubblicata sul numero di Science on line del 15 e su Nature on line del 20
settembre, scuote il mondo della biologia. Il DNA, la struttura molecolare
depositaria del nostro patrimonio genetico, non è poi quel moloch che controlla
il nostro destino (“the genes are our destiny”, come recita tanta divulgazione).
I risultati delle ricerche dei
team diretti da J. Ecker (Salk Institute for Biological Studies) e di D. Weigel
(Max Planck Institute) documentano che il DNA è un oggetto molto più fluido di
quanto si pensasse: soprascritto sul codice genetico c’è un altro codice, il
“codice epigenetico”. È noto che l’informazione nel DNA è contenuta nella
sequenza delle quattro basi canoniche (adenina, guanina, citosina, timina),
ma meno noto è il fatto che una di esse,
la citosina, può essere modificata da reazioni metaboliche della cellula
mediante l’aggiunta di un gruppo metilico.
Questa piccola alterazione non è
senza conseguenze: la sequenza sottostante di DNA rimane immodificata, ma la
presenza di metilcitosina, invece di citosina,
altera l’espressione del gene che la contiene: ne consegue che il numero
e la localizzazione di metilcitosine nel DNA di un organismo costituisce una
nuova fonte di informazione, l’informazione epigenetica, fondamentale per il
differenziamento cellulare e lo sviluppo dell’organismo.
Infatti è a tutti chiaro che le
cellule di un organismo pluricellulare hanno lo stesso DNA, ma é altrettanto
chiaro che le cellule di un organismo non sono tutte uguali (una cellula di
cuore ad esempio é diversa da una cellula di fegato). Questa diversità dipende
dal fatto che i geni espressi nelle due cellule non sono gli stessi e la causa
di ciò, almeno in parte, è nella diversa
localizzazione delle metilcitosine nel DNA dei vari tessuti dell’organismo.
Il lavoro dei ricercatori dei due
gruppi è consistito nel mappare l’epigenoma, cioè localizzare la posizione di
tutte le metilcitosine (3 milioni sulle circa 14 milioni di citosine totali)
nell’intera sequenza del genoma di Arabidopsis thaliana, la piantina modello
per eccellenza di tutta la biologia vegetale. L’analisi è stata compiuta su una
pianta progenitrice completamente omozigote e su piante discendenti da essa per
30 generazioni successive di autofecondazione.
Ci si attende in questo caso che
le sequenze del DNA (sia genomiche che epigenomiche) siano essenzialmente
identiche tra l’antenato comune e i discendenti, fatte salve le mutazione
spontanee (intorno a 7 x 10-9 sostituzioni di basi per sito per generazione
negli esperimenti del gruppo Salk): invece la localizzazione e la frequenza
delle metilcitosine nelle piante discendenti è significativamente diversa, al
punto che è possibile stimare una frequenza di “epimutazioni” (per citosina per
generazione) quasi centomila volte più elevata di quella delle mutazioni
classiche. Inoltre le nuove “epimutazioni” non sono silenti ma hanno
conseguenze sull’espressione dei geni e quindi ultimamente sulle proteine da
essi codificate.
Questo risultato è denso di
conseguenze: prima di tutto suggerisce che il codice epigenetico è molto più
fluido del codice genetico e questa fluidità ha conseguenze sui tratti
biologici dell’individuo. Non sappiamo poi quanto queste “epimutazioni” siano
casuali o indotte specificamente in modo adattativo dalle diverse condizioni ambientali (certo è
che l’adattamento, come il differenziamento cellulare, ha una sostanziale base
epigenetica). È come se sul testo di un romanzo, si potesse leggere, prendendo
una lettera ogni tre, un nuovo romanzo, romanzo
però che cambia ad ogni
generazione di lettori o ogni qualvolta il libro viene letto dallo stesso
lettore in un diverso ambiente.
Non c’è ragione di pensare che
quanto scoperto in Arabidopsis sia diverso negli animali e nell’uomo in quanto anch’essi possiedono un
codice epigenetico ed è proprio su
questa base che Ecker, il leader del gruppo Salk, dice che “the genes are not
our destiny”. Viene in mente a questo proposito
Mark Baldwin, uno psicologo americano che nel lontano 1896 pubblicò un
lavoro dal titolo “A new factor in evolution”. Il nuovo fattore, passato alla
storia con il nome di “effetto Baldwin”, prendeva in considerazione la capacità
degli organismi viventi di adattarsi, durante la loro vita, a nuove condizioni
ambientali. Questa capacità, sosteneva Baldwin, permette agli organismi di
sopravvivere e riprodursi nel nuovo ambiente, generando figli capaci anch’essi
di adattarsi e di sopravvivere nelle nuove condizioni fino a che, col passare
delle generazioni, si selezionano quei varianti (mutanti) che rendono
stabilmente incorporati nel codice genetico quei caratteri inizialmente emersi
a seguito dell’adattamento.
Non è proprio nella fluidità del
codice epigenetico che questo concetto, sintetizzato nel 2003 da Mary Jane West
Eberhard con l’aforisma “phenotype first, genotype follows” (prima viene il
fenotipo, il genotipo segue), può trovare la sua base molecolare?
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