Il futuro dell'uomo non sta nell'eco-scienza di Fabio Spina, 24-09-2011,
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Una volta era tutto semplice: la
civiltà e la cultura erano nella città, la civitas; al di là delle mura, nella
foresta, regnava la barbarie e le popolazioni selvagge, la dura legge della
natura. Nel tempo continuò l’aumento della popolazione nelle città ed in esse
continuò a voler vivere l’elite culturale, economica e politica, ma con il
trascorrere degli anni e l’aumentare del benessere la prospettiva iniziò a
cambiare: per molti filosofi, scrittori e gli stessi cittadini, la città
divenne il posto degli intrighi, dell’inquinamento e dell’immoralità mentre si
diffuse il mito del “buon selvaggio”. La contrapposizione tra “natura” e
cultura cambiò i pesi dei due “attori”.
A tal proposito Jean-Jacques
Rousseau (1727-1778) nel 1762, nel libro “Emilio o dell’educazione”, scrisse:
“Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera nelle
mani dell’uomo. Egli sforza i terreni a nutrire i prodotti propri d’un altro,
un albero a portare i frutti d’un altro; mescola e confonde i climi, gli
elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo;
sconvolge tutto, altera tutto, ama le deformità, i mostri; non vuol nulla come
ha fatto la natura, neppure l’uomo; bisogna addestrarlo per sé, come un cavallo
da maneggio; bisogna sformarlo a modo suo, come un albero da giardino”.
Una delle caratteristiche del
“buon selvaggio” era il saper vivere in armonia con la natura adeguandosi ai
suoi ritmi e le sue produzioni.
Se Rosseau osservava quanto sopra
quasi tre secoli fa, non può sorprendere quando il famoso sociologo Zygmunt
Bauman lancia l'ennesimo allarme ecologico dalla prima pagina del quotidiano
“La Repubblica”, il 17 settembre 2011,
scrivendo un articolo dal titolo “Il progresso è finito, al futuro serve
l’eco-scienza”.
Nell’articolo è possibile
leggere: ”Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco
dell´atmosfera, Paul Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l´epoca
geologica nella quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di
"Olocene", era in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in
un´epoca diversa della storia, nella quale le condizioni planetarie sono
plasmate dalle attività di origine culturale della specie umana più che da
qualsiasi forza naturale.[…] Negli ultimi due secoli gli uomini hanno
"sciolto" e rilasciato nell´atmosfera un volume di carbon fossile che
la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e ammassare).
Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca meriti il nome di
«Antropocene», ossia «la recente epoca dell´uomo»”.
Da questa nuova era nasce la
domanda fino a che punto deve spingersi il dominio della “cultura” sulla
“natura”: “La loro linea di separazione veniva considerata eminentemente
flessibile e soggetta a spostarsi” ma “siamo ormai giunti pericolosamente
vicini alla linea d´arrivo dei progressi sostenibili e plausibili”. “La
presunta serie infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci
ha portati davanti alla prospettiva (alcuni dicono: l´imminenza) di perdere la
guerra. Anzi forse, intossicati per aver vinto questa lunga striscia di
battaglie, abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso
significa che la sconfitta definitiva è ormai divenuta una conclusione
inevitabile e irrevocabile”.
La definizione “Antropocene”
potrebbe sembrare meno originale ricordando, ad esempio, che già dal 1992, anno
del Summit della Terra, si parla della nuova era dell’Ecozoico nelle
integrazioni di Leonardo Boff (1938- ),
ex frate francescano ed ex presbitero, teologo e filosofo brasiliano, alla sua
“Teologia della Liberazione” (in passato condannata dal Vaticano) utilizzando i
temi dell’ecologia e sostenibilità, in quanto Boff ritiene che formiamo insieme
alla “Terra viva” la grande comunità cosmica e vitale; secondo tale visione
siamo l'espressione cosciente del processo cosmico che necessità di una nuova
cosmologia.
Ma ciò che Zygmunt Barman si
dimentica di scrivere, mentre lo stesso Paul J. Crutzen ne fa cenno nel suo
testo “Benvenuti nell’Antropocene!”, è che già nel 1873 il famoso sacerdote
geologo Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891), parlò di un’’era Antropozoica”
e definì l’uomo “una forza tellurica”. Nell’articolo intitolato “L’uomo ed il
suo impero sulla terra”, Stoppani aveva definito il genere umano “ladrone del
mondo”, facendo trasparire la preoccupazione per il quesito: ”Che sarà quando
tutta l’Europa sia lavorata come l’Inghilterra, e tutto il mondo come
l’Europa?”. Tuttavia egli aveva finito per ribadire come la Terra fosse
destinata al progresso, all’uomo ed al suo sviluppo: ”Monti disboscati; piagge
nude imboschite; deserti mutati in prati; le squallide ericaie in campi
biondeggianti di messi; i nudi colli in vigneti e giardini […]. Giorno verrà
che la terra non sarà che un suggello della potenza dell’uomo, e l’uomo un
suggello della potenza di Dio”.
Eppure quelli erano anni in cui
la “teoria dell’effetto serra”, quella che prevede un riscaldamento globale a
causa dell’incremento della concentrazione di anidride carbonica e preoccupa
Zygmunt Barman, doveva ancora essere sviluppata da Svante August Arrhenius (Vik
1859 – Stoccolma 1927) nell’ambito della spiegazione delle ere glaciali; ciò
avverrà “solo” nel 1896. “Finalmente nell’era antropozoica, ecco l’uomo, che
viene a raccogliere ciò che non ha seminato, e si trova ricco ad un tratto di
una immensa eredità, accumulata per tanti secoli, con tanto lavoro di animali e
d’elementi. […] Così sorsero quinci, coi calcari paleozoici e triassici, le
cattedrali d’Italia; quindi coi nummuliti, le piramidi d’Egitto. A gara l’arte
e l’industria fanno a chi più spende del gratuito acquisto.” (tratto dalla sesta conferenza riportata nella
pubblicazione “Della purezza del mare e dell’atmosfera” del 1873).
La differenza tra “Antropocene” e
“Antropozoico” può apparire sottile, invece è sostanziale: in uno si è portati
a domandarsi dove va posizionata la linea che divide l’uomo dalla natura,
nell’altro tra la creatura ed il suo Creatore. In uno senza dirlo
esplicitamente Dio sparisce e la Natura, sempre più spesso, prende
implicitamente il suo posto, nell’altro l’ambiente ha senso solo se visto come
casa dell’Uomo. In uno la natura è al sicuro solo quando “scompare” l’uomo,
nell’altro caso il pianeta senza uomo è meno ricco, solo l’uomo integra la
Creazione con il suo ingegno “dando vita” a prodotti “frutto della terra e del
lavoro dell’uomo” (Gesù sceglie sulla tavola per l’Eucarestia il pane ed il
vino, non ad esempio l’acqua ed un frutto).
Lo scopo della creatura uomo è
umanizzare il pianeta, questo deve guidare ogni sua attività: il pianeta
migliora quando diviene più umano. Per questo l’uomo ha il dovere di preoccuparsi
delle piante e degli animali (non sono loro ad avere diritti). La natura senza
il lavoro responsabile dell’uomo degrada: un bosco abbandonato si ammala prima
e s’incendia con maggiore facilità, il vigneto abbandonato non produce,
sull’orto non lavorato prende il sopravvento l’erbaccia, i canali di scolo non
puliti con il tempo creano la palude e la malaria, etc.
“Oggi assistiamo non di rado al dispiegamento
di opposte posizioni esasperate: da una parte, in nome della esauribilità e
della insufficienza delle risorse ambientali, si chiede la repressione della
natalità, specialmente nel confronti del popoli poveri e in via di sviluppo.
Dall’altra, in nome di una concezione ispirata all’ecocentrismo e al
biocentrismo, si propone di eliminare la differenza ontologica e assiologica ha
l’uomo e gli altri esseri viventi, considerando la biosfera come un’unità
biotica di valore indifferenziato. Si viene cosi ad eliminare la superiore
responsabilitá dell’uomo in favore di una considerazione egualitaristica della
dignità dl tutti gli esseri viventi. Ma l’equilibrio dell’ecosistema e la
difesa della salubrità dell’ambiente hanno bisogno proprio della responsabilità
dell’uomo e di una responsabilità che deve essere aperta alle nuove forme di
solidarietà. Occorre una solidarietà aperta e comprensiva verso tutti gli
uomini e tutti i popoli, una solidarietà fondata sul rispetto della vita e
sulla promozione di risorse sufficienti per i più poveri e per le generazioni
future. L’umanità di oggi, se riuscirà a congiungere le nuove capacità
scientifiche con una forte dimensione etica, sarà certamente in grado di
promuovere l’ambiente come casa e come risorsa a favore dell’uomo e di tutti
gli uomini, sarà in grado di eliminare i fattori d’inquinamento, di assicurare
condizioni di igiene e di salute adeguate per piccoli gruppi come per vasti
insediamenti umani. La tecnologia che inquina può anche disinquinare, la
produzione che accumula può distribuire equamente, a condizione che prevalga
l’etica del rispetto per la vita e la dignità dell’uomo, per i diritti delle
generazioni umane presenti e di quelle che verranno. Tutto ciò ha bisogno di
saldi punti di riferimento e di ispirazione: la coscienza chiara della
creazione come opera della sapienza provvida di Dio, e la coscienza della
dignità e responsabilità dell’uomo nel disegno creazionale.”
(Giovanni Paolo II, discorso ai
partecipanti al Convegno “Salute e Ambiente”, marzo 1997).
Il futuro non è nell’eco-scienza
come riporta il titolo dell’articolo de “La Repubblica”, che significa
casa-scienza. “Non esistono scienze applicate ma solo applicazioni della
scienza” affermava Pasteur. La scienza è un metodo di conoscenza, non è lei da
sola a determinare il futuro dell’uomo ma eventualmente i valori che guidano il
suo uso: con la stessa “scienza delle costruzioni” si può costruire una casa
per poveri, un magazzino per viveri, una base missilistica e la “torre di
babele” per mettersi al posto di Dio.
La crisi ambientale, come quella
economica attuale, colpisce l’immaginazione e la sensibilità delle persone ma
sono solo gli effetti visibili di una crisi morale/etica invisibile ma reale.
Tali crisi avvengono quando utilissimi strumenti come l’economia, la finanza, i
soldi, il potere, non sono più mezzi per migliorare/umanizzare il mondo ma la
loro accumulazione diviene il fine
ultimo delle attività umane. I mercanti invece di essere scacciati dal Tempio
riescono a far divenire lo stesso mercato un tempio. Gradualmente e senza
accorgersene gran parte delle persone si
preoccupano solo del “come” e non del “perché”, nell’azienda si da valore al
“know how” e si dimentica il “know why”, nella scuola non serve più insegnare a
pensare ma è auspicato un finalizzato addestramento.
Il tutto va avanti nell’illusione
che per “migliorare” il sistema sia sufficiente affinare progressivamente solo
le tecniche del “come”, finché ad un certo momento l’intera struttura entra in
crisi definitiva e l’unico modo per uscirne è convincersi che non basta più
agire sugli strumenti ma occorre decidere un nuovo sistema di valori. In altre
parole la crisi può essere un segno dei tempi.
Sul piano ambientale in molti
casi la “green economy” non è stato altro che un modo far andare avanti il
sistema vendendo sul mercato “nuovi” prodotti e dando modo alla finanza di
poter speculare in borsa su una “innovativa” merce di scambio che sono i
“carbon credit”; troppo spesso purtroppo tutto era, ed è, solo un modo “come”
far girare più soldi. In altri casi la risposta alla crisi è stata più radicale
con l’affascinante proposta di un nuovo sistema di valori “ecologici” che fa
riferimento alla natura “vista” quasi come una nuova divinità pagana disturbata
dalla presenza umana.
La proposta cristiana per
affrontare la crisi ambientale è resa visibile nel mese di settembre, ormai da
anni, dedicato alle iniziative sviluppate in occasione della “Giornata per la
Salvaguardia del Creato”. In tale occasione sarebbe opportuno ricordare che
l’Uomo non è il problema del pianeta ma la più preziosa ed inesauribile
risorsa. Risorsa che è in grado con le proprie e non limitate capacità
intellettive, di cambiare gli scenari futuri passando dal consumo all’uso delle
risorse naturali, riducendo lo spreco ed aumentando l’efficienza dei processi
tramite le nuove tecnologie, modificando in modo avveduto e razionalmente i
nostri comportamenti individuali e sociali. Il proporre la “giusta misura” nel
“coltivare e custodire il Creato”, che prenda sempre l’uomo in se stesso come
valore di riferimento, è quanto in ogni epoca il Cristianesimo propone con una
lettura del mondo alla luce della rivelazione, lettura che porta con se un
messaggio sempre nuovo di speranza e salvezza per l’Uomo, per gli ultimi del
mondo ed anche per il nostro pianeta. Una visione sicuramente non dominante, ma
di ciò i cristiani non si devono preoccupare più del dovuto perché sono da
sempre destinati ad essere minoranza che non deve sparire nell’omologazione,
fermento, seme destinato a morire per dar nuova vita.
In questo modo sarà più difficile
illudersi che il futuro sia l’eco-scienza come cerca di persuadere il titolo su “La Repubblica”.
Occorre invece seguire con fede e speranza il motto del viaggio in Germania di
Papa Benedetto XVI: “Dove c'è Dio, là c'è futuro". Infatti, “priva di
futuro sarà la terra solo quando si spegneranno le forze del cuore umano e
della ragione illuminata dal cuore – quando il volto di Dio non splenderà più
sopra la Terra. Dove c’è Dio, là c’è futuro”.
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