DISCORSO DEL PAPA ALL'“AUGUSTINERKLOSTER” DI ERFURT
ERFURT, venerdì, 23 settembre
2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso che Papa Benedetto XVI ha
pronunciato questo venerdì al suo arrivo all'Augustinerkloster di Erfurt,
incontrando quindici di rappresentanti del Consiglio della Chiesa Evangelica
Tedesca (EKD).
* * *
Illustri Signore e Signori!
Prendendo la parola, vorrei
innanzitutto ringraziare per quest’occasione di incontrarvi. La mia particolare
gratitudine va al Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e mi ha
ricevuto in mezzo a voi con le sue cortesi parole. Vorrei ringraziare, allo
stesso tempo, per questo dono speciale, che il nostro incontro possa svolgersi
in questo luogo storico.
Per me, come Vescovo di Roma, è un
momento emozionante incontrare qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt,
rappresentanti del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania. Qui Lutero ha
studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote nel 1507. Contro il desiderio
del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e
si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. In questo
cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la
questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e
dell’intero suo cammino. "Come posso avere un Dio misericordioso?":
questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca
teologica e ogni lotta interiore. Per lui la teologia non era una questione
accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta
riguardo a Dio e con Dio.
"Come posso avere un Dio
misericordioso?". Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto
il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente. Chi, infatti, si preoccupa oggi
di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella
nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei
cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa
dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo
soltanto carne. Se oggi si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio,
allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e,
alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. Ma sono
veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a
causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto
al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della
droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra,
dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato
dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza
della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere
parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il
prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? Le domande in
questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non
potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della
nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi
trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Martin Lutero deve
diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda. Penso
che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin
Lutero.
E poi è importante: Dio, l’unico
Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi
filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato.
Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il
pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica:
"Ciò che promuove la causa di Cristo" era per Lutero il criterio
ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però,
presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per
Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.
Ora forse voi direte: Va bene, ma
cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è
forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei
quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo
rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la
pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi
cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono
restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto
per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale
ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle
professioni di fede del cristianesimo antico. È questo il grande progresso
ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e,
nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di
fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo
mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro fondamento imperituro.
Il pericolo di perderla,
purtroppo, non è irreale. Vorrei qui far notare due aspetti. Negli ultimi
tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando
ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con
un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le
Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di
scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno
bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale ci pone
tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo
questa nuova forma di cristianesimo?
In ogni caso, ci mette nuovamente
di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa
possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta
fondamentale nella fede.
Più profonda e nel nostro Paese
più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei
parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo
vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra
società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la
Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più.
Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni
mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere
ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che
appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì
solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico
centrale. In questo dovremmo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo
e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma
una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con
Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca
nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima
grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire
dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più
forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore.
[© Copyright 2011 - Libreria
Editrice Vaticana]
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