La Cassazione fa fuori la famiglia di Tommaso Scandroglio, 26-09-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Ci risiamo. Ancora una volta un
giudice gioca a scompigliare le nostre leggi. Casi eccellenti li abbiamo avuti
con la legge 40 sulla fecondazione artificiale e sull’eutanasia (Eluana e Welby
per fare due nomi). Ora è il turno del diritto di famiglia. Veniamo ai fatti.
Una coppia divorzia. Lei successivamente va a convivere. L’ex marito a quel
punto decide di non darle più l’assegno di mantenimento. Gli animi si scaldano
e vanno in tribunale, finchè la lite approda in Cassazione che qualche giorno
fa dà ragione al marito. Hanno fatto bene i giudici a negare l’assegno all’ex
moglie perché ormai convivente?
Procediamo per gradi. Il Codice
Civile all’art. 156 ci informa che l’assegno di mantenimento può essere dato al
coniuge che non è colpevole della separazione e “qualora egli non abbia
adeguati redditi propri”. Dunque se l’ex coniuge ha un’attività commerciale ben
avviata, vince alla lotteria, riceve una cospicua eredità etc. e dimostriamo
così che ha redditi propri, l’ex coniuge non ha più diritto all’assegno.
Andare a convivere può
significare che il portafoglio non piange più? Dipende dai casi. Non è certo
che la convivenza comporti automaticamente un tenore di vita che non necessita
più dell’assegno divorzile (Cassazione n. 23968/2010). Occorre vagliare caso
per caso. Situazione differente se l’ex coniuge che percepiva l’assegno si
risposa: in questa fattispecie il diritto all’assegno cessa automaticamente.
Perché? Chi si sposa assume degli obblighi giuridici tra cui “l’assistenza
materiale, gli alimenti”, il dovere di “contribuire ai bisogni della famiglia”
e di “mantenere la prole”.
Dunque se uno si sposa, o si
ri-sposa, significa che può soddisfare a questi oneri e dunque il diritto
presume che abbia “adeguati redditi propri”. Chi convive non si assume questi
vincoli giuridici e perciò la presunzione di prima non vale. E dunque come si
diceva innanzi bisogna indagare caso per caso per capire come stanno le cose,
al di là del fatto che l’ex coniuge conviva o meno.
A questa stregua potremmo pensare
che la Cassazione abbia negato l’assegno perché ha scoperto che l’ex moglie
ormai convivente abbia comunque in tasca un bel po’ di soldini e quindi non
necessita più dell’aiuto dell’ex marito. Non è proprio così.
La Cassazione è d’accordo
anch’essa che convivenza non significa di per sé buon reddito di ciascun
convivente, ma che è necessario esaminare ogni situazione. Ma cosa per la
Cassazione occorre verificare ogni volta? Il reddito del convivente ex coniuge?
No, occorre verificare che ci sia una famiglia di fatto, cioè una stabilità e
continuità di vita a due arricchita da un progetto comune. Così la stessa
Cassazione: “ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità,
e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a
quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)… la
mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto”. Quindi
se provo che c’è stabilità, continuità e progettualità comune è certo che ogni
convivente ha redditi più che sufficienti per vedersi negato l’assegno. Ma,
aggiungiamo noi, queste caratteristiche invece non sono probabanti al 100% del
fatto che il tenore di vita dei due è buono.
E poi il giochino della Corte di
Cassazione è astuto. Dire “relazione stabile, duratura e finalizzata ad un
progetto di vita” significa dire in soldoni “convivenza”. Ergo ciò che si dovrà
provare è se esiste una convivenza e, se ci fosse, ecco che si tratterà la
convivenza come un secondo matrimonio civile che di suo impedisce la
corresponsione dell’assegno di mantenimento. Ad onor del vero la Cassazione
prudentemente non arriva ad affermare questo, anzi lo rigetta, ma la
conclusione logica del suo discorso non può che essere una equiparazione tra
convivenza e matrimonio civile. Infine con buona probabilità a breve si
arriverà a sostenere: “Perché obbligare il giudice ogni volta a verificare se
c’è un rapporto di convivenza? Più facile sarebbe riconoscere giuridicamente
per legge una volta per tutte le coppie di fatto”. E il cerchio si chiude.
Esaminato il caso sotto l’aspetto
più prettamente tecnico, proviamo a tratteggiare qualche altro spunto critico
di più ampio respiro. In primo luogo è chiarissimo che per la Cassazione non
c’è più, come riconosce la Costituzione all’art. 29, un unico modello di
famiglia, cioè quello fondato sul matrimonio, ma anche le famiglie di fatto.
Come arriva ad asserire ciò? Attraverso due strade. Una di carattere normativo:
“si rinviene – così dicono i giudici - seppur indirettamente, nella stessa
Carta Costituzionale una possibile garanzia per la famiglia di fatto, quale
formazione sociale in cui si svolge la personalità dell'individuo, ai sensi
dell'art. 2 Cost.” Insomma sarebbe la stessa Costituzione a tutelare la
convivenza.
Ma il riferimento è erroneo.
Primo perché il fenomeno della convivenza era pressoché sconosciuto nel ’47,
anno di promulgazione della Costituzione. Come si faceva a tutelare qualcosa
che non c’era? Secondo perchè l’art. 2 dice altro rispetto all’interpretazione
della Cassazione, cioè stabilisce che i diritti del singolo non evaporano se
questi diviene membro di un’associazione, di una fondazione, di una società,
etc. Inoltre considerare le coppie di fatto come “formazioni sociali” è come
asserire che la Divina Commedia è un ottimo saggio di giornalismo. Le
espressioni linguistiche hanno un loro significato proprio, altrimenti sono
“parole in libertà” come direbbero i futuristi. Ma ammesso e non concesso che
la Costituzione intenda considerare le coppie di fatto come “formazioni
sociali”, l’art. 2 esplicitamente va a tutelare non le formazioni sociali (le
coppie di fatto), ma i diritti dei soggetti che vivono in queste formazioni
sociali, e non perché conviventi ma perché persone.
Infine la Costituzione laddove
vuole tutelare un istituto lo indica espressamente, non lascia spazio ad
ambiguità, a letture “indirette” come afferma la corte. Il fatto che la
Costituzione abbia assegnato uno specifico articolo alla famiglia fondata sul
matrimonio e il fatto che non esista uno per la convivenza sta a significare
che lo Stato italiano è indifferente al fenomeno. Non tutte le relazioni umane
– anche se affettivamente importanti – devono ricevere l’imprimatur statale.
L’amicizia è sicuramente fenomeno sociale diffuso e considerato dai più
importante, ma non per questo lo Stato ci deve metter becco.
Quest’ultima argomentazione ci
traghetta ad un’altra considerazione sul perché la Cassazione consideri la
convivenza come un’altra e nuova tipologia di famiglia. Nella sentenza emerge
che giudici si arrendono al fatto che è la storia a stabilire cosa è giuridico
e cosa non lo è. Una volta la convivenza era reato – così appuntano i
magistrati – poi venne considerata in modo neutro ed oggi infine il percepito
comune è addirittura benevolo. E’ l’etica fenomenologica e democratica: se un
fenomeno è diffuso da tempo e il giudizio della massa è favorevole, pregasi il
diritto adeguare le sue norme ai fatti ed all’opinione della maggioranza.
Ma il diritto non deve tutelare
la convivenza (i conviventi, intesi come singoli soggetti giuridici, invece sì)
perché lo Stato ha l’obbligo di disciplinare giuridicamente solo quei fenomeni
sociali che incidono significativamente sul bene comune. Il matrimonio rientra
appieno in questa categoria, per tutti i diritti e doveri che esso comporta. La
convivenza non può essere riconosciuta giuridicamente perché di per sé legame
precario – quindi temporaneo e fragile – e privo per volontà degli stessi
conviventi di obblighi formali così importanti che hanno un riflesso giuridico
anche sulla collettività tutta intera.
Se ci sono doveri e
responsabilità all’interno di una coppia di fatto esistono solo a livello
privato. Non così per gli sposi i quali si assumono alcune responsabilità
particolarmente importanti davanti a tutta la società. Questo è tanto vero che
nella ventina e più di disegni e progetti di legge per riconoscere
giuridicamente le coppie di fatto c’è una bella lista di diritti per i
conviventi, diritti scippati agli sposi, ma di doveri giuridici non c’è
traccia. In breve è come esigere di entrare allo stadio ma non voler pagare il
biglietto.
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