LA VITA E I SUOI LIMITI: RIFLESSIONI BIOETICHE - di don Giuseppe
Zeppegno
ZI11091810 - 18/09/2011
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Giuseppe Zeppegno, sacerdote
della diocesi di Torino, è direttore scientifico del Master Universitario in
Bioetica nella Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose. Ha
ricoperto e ricopre incarichi di docenza anche presso il Ciclo istituzionale,
il Ciclo di specializzazione in Teologia Morale e il Centro di formazione al
Diaconato Permanente. Autore prolifico di libri ed articoli scientifici, è
anche assistente ecclesiastico regionale dell’A.C.O.S. (Associazione Cattolica
Operatori Sanitari) e assistente ecclesiastico dell’A.M.C.I. (Associazione,
Medici Cattolici Italiani).
ROMA, domenica, 18 settembre 2011
(ZENIT.org).- Desidero prima di tutto soffermare la mia attenzione
sull’autonomia personale. Il significato di questo termine è stato indicato
primariamente da Aristotele come la possibilità data all’uomo di organizzare la
vita scegliendo tra il bene e il male in virtù delle leggi presenti nella sua
natura. Il concetto di autonomia proposto oggi dalla bioetica laica è
completamente sganciato da ogni riferimento valoriale universalmente evidente.
In Principles of Biomedical Ethics, T. L. Beauchamp e J. Childress affermano
che le persone devono poter agire secondo i loro personali valori senza che
terzi possano interferire, neppure nel caso che scelgano di mettere a
repentaglio la loro vita. L’idea di fondo è che ciascuno ha la sua idea di bene
e di male e tali idee non possono essere discusse per sviluppare un confronto
su ciò che veramente è bene e male. Il Professor Paolo Merlo, che insegna in
questa Facoltà, ha affermato nel suo libro «Fondamenti & temi di bioetica»
(2009) che in questo modo «la moralità dell’agire non rinvia più alla libera
scelta del bene conosciuto, ma al semplice darsi di un agire autonomo, esente
da costrizioni esterne».
Chiediamoci: la dignità personale
ha veramente come unico referente il principio di autodeterminazione, inteso
come assenza di limite alla condotta personale e sociale? Una seconda questione
può essere formulata con la seguente domanda: chi è la persona? Nella lingua
greca il termine πρόσωπον (prosōpon), persona, indicava: il volto dell’uomo, la
maschera portata dagli attori durante le rappresentazioni. Di fatto, lungo la
storia del pensiero umano questo termine acquisì un significato ontologico
indicando l’individuo umano concreto, il singolo soggetto di diritti. Con
Cartesio (1596-1650) ci fu una grande svolta. Egli definì la persona non più in
rapporto all’essere ma all’autocoscienza: “Cogito ergo sum”. Oggigiorno è
questo il modo diffuso, da parte di certa bioetica, di interpretare la persona.
La formulazione cartesiana aprì a concezioni deboli della persona. Con
conseguenze molteplici. Cito a conferma due autori contemporanei. M. Tooley nel
1992 ha scritto: «Un organismo possiede un serio diritto alla vita se possiede
il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati
mentali, e crede di essere una tale entità nel tempo». Il secondo autore è H.
T. Engelhardt. Nel 1996 scrisse: «Non tutti gli umani sono persone. Non tutti
gli umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità
del biasimo e della lode. Feti, infanti, ritardati mentali gravi e malati o
feriti in coma irreversibile sono umani, ma non sono persone […]. Essi non
possiedono un’autonomia suscettibile di essere lesa dagli altri».
Quali le conseguenze di questo
tipo di informazioni sulla vita? Interpretando questa logica M. Reichlin M. in
un articolo del 2001, notò che è plausibile porre termine «alla vita nei casi
in cui la condizione patologica è tale da non consentire più alcun esercizio
della personalità morale, ossia quando la corporeità personale è privata in
maniera pressoché definitiva e non più reversibile delle capacita di
trascendenza e di relazione all’altro che ne contraddistinguono la condizione
“normale”». Engelhardt arrivò a dire nel suo manuale che è lodevole la disponibilità
ad aiutare a morire chi desidera concludere la sua esistenza, ma è incapace di
procurarsi da sé la morte purché abbia manifestato l’esplicito “consenso”. Allo
stesso modo si esprime il Nuovo Manifesto di Bioetica laica del 2007. Nel testo
si legge: «Rivendichiamo la possibilità di scegliere, per mezzo del testamento
biologico, i modi nei quali morire, esercitando il diritto di accettare, di
rifiutare o di interrompere le terapie anche se iniziate, il diritto di
respingere tutti gli interventi medici non voluti, fossero anche il
prolungamento della respirazione, idratazione e alimentazione artificiali,
anche qualora non fossero futili».
Arriviamo dunque allo stato
vegetativo (SV). P. Singer in un articolo comparso nel 2000 sulla rivista
Bioetica, Rivista interdisciplinare, e in altri testi, ha presentato un’idea di
SV sovente ripresa da altri Autori. Egli evitò di indicare come morti quanti
hanno irreversibilmente smarrito l‟attività cosciente perché «considerare morti
esseri umani che respirano e il cui cuore batte senza alcuna assistenza
esterna», sarebbe «paradossale». Tuttavia, osservò che la coscienza è
normalmente indicata come la facoltà rivelatrice della persona umana. Consigliò
allora di spostare l’attenzione dalla «morte dell’organismo» alla «morte della
persona», continuando a definire gli esseri umani incapaci di coscienza, vivi
come organismi, ma «non occupati», cioè morti come persone. In definitiva, è
persona l‟essere umano cosciente. Quando viene a mancare la coscienza possiamo
dire di essere ancora di fronte ad un essere umano, ma non più ad una persona.
Sarebbe allora legittimo poter interrompere l’esistenza di queste «non più
persone» che definisce «organismi non occupati», cioè morti come persone.
Su questa scia si pose anche
Santosuosso, giurista che molta parte ha avuto nella vicenda di Eluana Englaro.
Nel medesimo fascicolo della rivista ha sostenuto che i soggetti in SV, pur
essendo ritenuti individui viventi da tutti gli ordinamenti giuridici del
mondo, «non hanno alcuna possibilità di recupero della vita cognitiva e quindi
di un ritorno, anche solo parziale, a una qualche forma di vita di relazione».
Dopo aver seguito la Lettura Magistrale della prof.ssa Mazzucchi, possiamo
affermare che è un giudizio a dir poco tranchant … La loro irrecuperabilità,
prosegue Santuosso, dovrebbe essere sufficiente a riconoscere la «morte
personale» (– analogo criterio di Singer –) di questi individui e dovrebbe
indurre a «trovare criteri accettabili e ragionevoli per le decisioni che il
progresso tecnico medico rende necessarie in un numero sempre crescente di
situazioni».
In altri suoi scritti ha
precisato che la medicina ha delle capacità tecniche rilevanti, riesce, ad
esempio, a individuare nuove terapie per curare malati che un tempo non sarebbero
sopravvissuti. È però necessario evitare il prolungamento di vite che non
sembrano più personali. In questa linea, il diritto di morire stabilito dalla
«Sentenza Englaro» (9 luglio 2008) ha inaugurato in Italia un pericoloso pendio
scivoloso dove nascita, vita e morte non hanno valore in sé, ma sono affidati
all’apparente potere dell’uomo di essere arbitro indiscusso della vita.
Infatti, dallo stato vegetativo si potrebbe passare ad altre situazioni di
disabilità. Una persona malata di Alzeheimer, ad esempio, potrebbe secondo
questo tipo di indicazione, essere ritenuta non più occupata, quindi non più
persona.
È mio compito presentare una
diversa prospettiva. Cito una importante Conferenza svoltasi dal 4 al 7 luglio
2010 a Salerno: «3rd International Conference on Coma and Consciousness». Essa
ha offerto una nuova definizione allo SV: sindrome della veglia relazionale o
non responsiva. Basandosi unicamente sui dati scientifici, i partecipanti sono
stati concordi nell’affermare che con le tecniche avanzate di neuroimaging oggi
in uso è possibile dimostrare che nei pazienti con questi gravi disordini di
coscienza la situazione non è statica ma dinamica. Per questi pazienti nel 2005
il Gruppo di lavoro del Ministero della Salute «Stato vegetativo o di minima
coscienza» presieduto dall’On. Di Virgilio, aveva indicato quattro possibili
strategie di intervento: fase acuta: che si deve realizzare in area
d‟emergenza; fase subacuta: in reparto intermedio in prossimità della
rianimazione; fase riabilitativa: in unità caratterizzate da una importante
governance clinica; fase degli esiti: richiede una diversificazione degli
interventi secondo il grado di recupero raggiunto dal paziente (riabilitazione
domiciliare, ricovero in unità di accoglienza permanente).
Questo Gruppo di lavoro si
rifiutò di definire quest’ultima fase come cronica perché «il termine
“cronicità” molto spesso non evoca la necessita di accompagnamento,
condivisione, presa in carico». É altresì scorretto indicare le strutture di
lungodegenza attrezzate per questi pazienti come “parcheggi”, “attese di fine
vita”. Allo stesso modo, deve essere corretta la terminologia spesso coniata
dai media per descrivere chi è in SV (“non mondo”, “non vita”). É più
appropriato indicarle come “persone con gravissima disabilità”. Nella fase
degli esiti, l'inserimento a domicilio è possibile se non sono avvenute
importanti evoluzioni cliniche e s'ipotizza la persistenza dello SV perché in
condizione di bassa responsività i malati non necessitano di trattamenti
complessi. É indispensabile però che i caregiver non siano abbandonati, ma si
attivi una rete di interventi che preveda la fornitura dei necessari ausili, di
un mezzo di trasporto adeguato da far intervenire all’occorrenza, la
possibilità di ricoveri temporanei di sollievo, il coinvolgimento diretto del
medico di medicina generale, delle strutture socio-sanitarie territoriali, di
gruppi e associazioni di volontariato. Infatti, molto spesso uno dei più gravi
problemi dei familiari è quello di non sentirsi sufficientemente supportati
dalle strutture pubbliche e dalle reti di volontariato. Inoltre, non tutti
possono tenere il loro malato in casa. In Italia sono ancora poco presenti
strutture dedicate alla fase post-acuta e non hanno ancora standard
d’intervento condivisi. Spesso, come nel caso della Casa dei Risvegli “Luca De
Nigris”, tali strutture sono state promosse grazie alla lodevole iniziativa di
privati toccati dalla vicenda di congiunti caduti in SV. Altre volte, sono
sorte grazie alla felice intuizione di esperti come il prof. Giuliano Dolce e
la prof.ssa Anna Mazzucchi che hanno saputo affiancare alla cura d’eccellenza
progetti di ricerca all’avanguardia. Il loro operato è contraddistinto da una
duplice capacità: curare i singoli casi e condurre una ricerca altamente
qualificata nel settore.
In alcuni casi si vengono a
creare delle situazioni limite di interesse bioetico. Può capitare che lo SV si
prolunghi e diminuiscono le possibilità di ripresa. In questo caso devono
essere garantiti gli interventi ordinari e palliativi. Attenta ponderazione va
posta nella valutazione della proporzionalità della cura all’insorgenza di
patologie di natura spontanea. Interventi rianimatori, chirurgici,
chemioterapici, possono risultare sproporzionati per un paziente che ne ottiene
l’unico beneficio di continuare la sua vita vegetativa. In sostanza, ha senso
rianimare uno SV che va in arresto cardiaco? Ha senso porre in essere
importanti interventi chirurgici in una persona in SV? Durante la vicenda
Englaro, ad esempio, si registrò una grave emorragia. Quasi tutti erano
concordi nel dire «non interveniamo con le trasfusioni». Perché questo tipo di
sottolineatura? Perché sembra che l’unico beneficio che il paziente ne potrebbe
ricavare sarebbe quello di essere messo in condizione di prolungare il suo SV.
[Per
saperne di più consigliamo la lettura del volume che raccoglie gli atti del
convegno “La vita ed i suoi limiti” svoltosi a Torino il 26 giugno del 2011, ed
edito dal Centro Cattolico di Bioetica dell’arcidiocesi di Torino. La seconda
parte della riflessione di don Zeppegno verrà pubblicata domenica 25 settembre]
LA VITA E I SUOI LIMITI: RIFLESSIONI BIOETICHE (PARTE II)
di don Giuseppe Zeppegno*
ZI11092504 - 25/09/2011
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ROMA, domenica, 25 settembre 2011
(ZENIT.org).- Passo ora alla riflessione circa il rispetto dovuto alla vita
umana secondo la riflessione ecclesiale. Cito un documento che non parla di
Stato Vegetativo (SV), ma che nelle sue parti iniziali mi pare che indichi
molto chiaramente l’obiettivo che possiamo anche noi tenere presente:
intangibilità della vita umana. La dichiarazione «Dignitas Personae» della
Congregazione per la Dottrina della Fede, focalizzata sul tema della
fecondazione medicalmente assistita, al primo paragrafo afferma: «Ad ogni
essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità
di persona». E ancora: «Questo principio fondamentale, che esprime un grande
“sì” alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica».
Altre fonti aiutano ad
evidenziare che la Chiesa si pone, nell’ambito della questione della
sofferenza, un obiettivo ben definito. Giovanni Paolo II, ad esempio, nella
«Evangelium Vitae», la prima Enciclica interamente dedicata alla bioetica, al
n° 65 aveva affermato: «Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi
curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè
valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente
proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento». Nello stesso
paragrafo aveva aggiunto: «La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati
non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione
della condizione umana di fronte alla morte». È ciò che ha messo in pratica lo
stesso Pontefice, quando si è trovato al termine della sua esistenza, evitando
ulteriori interventi che potevano essere null’altro che accanimento
terapeutico. Chiediamoci: qual è la scelta di fondo di questi documenti?
Sostanzialmente quella di evitare due antitetici fondamentalismi: quello tipico
di chi sostiene che la vita debba essere difesa, anche a costo di cadere nel
disastroso “accanimento terapeutico” che si oppone al naturale processo di
morte prolungando con mezzi sproporzionati l’agonia; quello tipico di chi
sostiene che ogni uomo ha il diritto di scegliere il tempo e il modo di
procurarsi la morte arrivando a rifiutare ogni terapia ed anche le cure
palliative.
Ritengo sia necessario ribadire i
concetti sopra espressi perché troppo spesso alcuni sostengono che la Chiesa
vuole il proseguimento della vita a tutti i costi. Non escludo che qualche
ecclesiastico si esprima in questi termini, ma la sua è una riflessione non
supportata dalla riflessione magisteriale.
La riflessione della Chiesa sulla
proporzionalità delle cure è molto antica, ma sono in pochi a saperlo. Risale a
Francisco de Vitoria (1483-1546), teologo morale che i più conoscono per quanto
egli ha scritto sul diritto internazionale. Nel testo Relectiones Theologicae,
pubblicato postumo (Lugduni, 1586), riferendosi alla Summa Theologiae di San
Tommaso sostenne l’obbligo morale d’offrire al malato un’adeguata alimentazione
e idratazione fino a quando l’assunzione di cibi e bevande è possibile senza
eccessivo sforzo. Precisò inoltre che non vige l’obbligo morale di cercare
tutti i mezzi medicinali; ci si può lecitamente accontentare di quelli comuni
astenendosi dal dilapidare il patrimonio per sottoporsi a una terapia esosa.
Affermazioni analoghe sono presenti nei seguenti documenti: Pio XII,
Allocuzione, 24.XI.1957; Iura et bona, 1980: IV parte; Pontificio Consiglio Cor
Unum, 1981: II parte; Catechismo della Chiesa Cattolica, par. 2278; XIV
Assemblea Generale della PAV (25-27 febbraio 2008).
L‟ultimo documento tra quelli
sopra citati offre una nuova comprensione della proporzionalità delle cure.
Invita a considerare tre fasi di elaborazione del giudizio morale: la prima
fase ha lo scopo di valutare la proporzionalità/sproporzionalità oggettiva di
un determinato intervento; la seconda fase invece prevede la valutazione
dell’ordinarietà/straordinarietà attenta alla soggettività del paziente; la
terza fase offre un quadro sintetico delle prime due. Riunisce le valutazioni
del medico (proporzionalità/sproporzionalità) con quelle del paziente
(ordinarietà/straordinarietà). Ovviamente questo è possibile quando il malato è
senziente. Per gli altri casi diventa necessario considerare attentamente quali
sono le sue indicazioni eventualmente espresse in precedenza e interpretate da
chi lo ha conosciuto profondamente.
Mi avvio alla conclusione
presentando lo specifico insegnamento ecclesiale sulla cura delle persone in
stato vegetativo. Un primo documento utile, anche se non tratta direttamente
dello stato vegetativo, ma della rianimazione, fu redatto da Pio XII. Egli ha
scritto più di 98 discorsi per i medici e gli operatori sanitari in genere.
Certi principi da lui individuati sono utilissimi ancor oggi. Il 24 novembre
1957 ha affermato che «la rapidità con cui è necessario agire all’insorgere di
un insulto cerebrale grave non permette di chiarire la gravità e l'eventuale
irreparabilità del trauma subito. La doverosa prudenza pertanto giustifica la
rianimazione».
Prosegue su questa linea un
documento del 1980, redatto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede,
«Iura et bona» (IV parte): «É legittimo sospendere i trattamenti anche quando
si ravvisa l’approssimarsi imminente della morte e si riconosce che i mezzi
usati procurano un prolungamento precario e penoso della vita. Il medico in
questo caso è tenuto ad assolvere ancora il suo compito di assistenza offrendo
le necessarie cure normali. La morte che apre la via all’immortalità, quando
sta per giungere, deve essere accettata con dignità». In sostanza, la morte
deve essere accettata come dimensione del vivere.
In tempi recenti questa
riflessione fu stimolata soprattutto dai vescovi americani in quanto si
trovarono per primi a discutere sugli stati vegetativi e sulla soluzione che
alcune procedure giudiziarie avevano posto. In concomitanza con gli studi che
venivano fatti in America, Giovanni Paolo II si è espresso in due discorsi. Nel
1998 durante la visita ad limina dei Vescovi della California, del Nevada e
delle Hawaii e nel 2004 nel discorso alla Federazione Internazionale delle
Associazioni dei Medici Cattolici e alla Pontificia Accademia per la Vita.
Particolarmente discussa è stata la questione della somministrazione
dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, la cosiddetta NIA: American
Medical Association approvò la rimozione dei supporti vitali in chi presentava
una situazione di irreversibilità (1981, 1990); President’s Commission for the
Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research
stabilì che la decisione di interrompere la NIA non deve essere determinata da
pronunciamenti giudiziari, ma deve essere delegata unicamente ai decisori
surrogati (1983); Council of Ethical and Judicial Affairs dell‟American Medical
Association la definì trattamento medico sospendibile al pari di ogni altro trattamento
(1986); Hasting Center (1987) espresse parere concorde alla sospensione.
Su questo tema in America sono
stati condotti molti studi “bipartisan”. Quello che considero di maggior
interesse è «Artificial Nutrition and Hydration – The New Catholic Debate»
pubblicato nel 2008. I Vescovi americani dal canto loro, perplessi dalle
dispute che il caso Terri Schiavo aveva procurato, decisero di interpellare la
Congregazione per la Dottrina della Fede. Le loro domande pervennero in
Vaticano l’11 luglio 2005 attraverso la lettera scritta da Mons. W. S.
Skylstad. La risposta della Congregazione giunse il primo di agosto del 2007.
Questa la risposta sul tema dell’alimentazione e dell’idratazione: «La
somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di
principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa
è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di
raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e
il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte
dovute all’inanizione e alla disidratazione. […] Un paziente in “stato
vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale,
alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che
comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche
per vie artificiali. […] La NIA può essere sospesa solo quando non ottiene più
l'effetto proprio. Anche quando sussistesse scarsa probabilità di recupero, non
si può decretare la morte di queste persone per fame e per sete. Tale scelta
sarebbe un deliberato atto d'eutanasia per omissione».
Pertanto, solo nella fase della
terminalità può essere giustificata l’interruzione della NIA. È evidente che la
Chiesa invita a valutare – di fronte al letto del malato, quindi considerando
il singolo caso clinico – non teorie generali, bensì ciò che è proporzionato in
ogni fase della situazione clinica, arrivando anche alla sospensione di certi
trattamenti quando non risultano più efficaci. Mai vige la logica
dell’abbandono. Sussiste una abissale differenza tra l’aiutare a morire – ossia
un intervento attivo o omissivo finalizzato a provocare la morte (il caso
Englaro entra in questo tipo di dinamica) – e l’aiutare nel morire. Il medico
ha l’obbligo morale di continuare a prendersi cura della vita del paziente
accompagnandolo con la palliazione fino all’ultimo respiro. Negli ultimi
frangenti non tutte le cure palliative sono utili. Desidero concludere il mio
intervento citando la frase di una lettera di Marco Bettiol, un ragazzo morto
giovanissimo a causa di una gravissima disabilità. Egli ha compiuto un percorso
davvero grande sia dal punto di vista umano che spirituale. Seppur
giovanissimo, ha colto il senso profondo della vita umana: «La vita è una
strada che non si ferma quando vorremmo sederci, che molte volte non va nella
direzione che avremmo desiderato, che spesso è così in salita da lasciarci
senza fiato, ma che va affrontata con lo sguardo puntato sulla meta e non solo
con il capo chino per non inciampare sui sassi che ci intralciano il cammino».
[La prima parte dell'articolo è
stata pubblicata il 18 settembre]
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