lunedì 7 maggio 2012


Dopo il discorso del Pontefice all’Università Cattolica - I pericoli della biomedicina, Augusto Pessina, Università di Milano, 6 maggio 2012, http://www.osservatoreromano.va

Per i cinquant’anni della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il Papa ha svolto una serie di riflessioni sul delicato tema delle scienze sperimentali, che «hanno trasformato la visione del mondo e la stessa auto comprensione dell’uomo». Questo alto richiamo offre lo spunto per interrogarsi su un termine divenuto di moda e spesso abusato: la cosiddetta biomedicina. Il suo significato è infatti rivoluzionario e alcuni cenni di Benedetto XVI aiutano a comprenderlo meglio nei suoi aspetti più critici. Esso non è affatto neutro e tantomeno innocuo sia per quanto riguarda le premesse da cui nasce sia per le conseguenze che già produce e potrà produrre in futuro.
 La biomedicina ha contribuito alla trasformazione della medicina da arte di curare a pseudoscienza, nel cui ambito la valutazione clinica non rappresenta più una fase dell’esistenza di una persona, ma tende a interferire nella definizione stessa della vita umana. La biologia, infatti, seppure ancora intesa come disciplina puramente descrittiva dei fenomeni vitali nell’ambito di un contesto positivista e meccanicista, ha avuto quasi da subito la pretesa di leggere la vita, compresa quella umana, come mero risultato dell’organizzazione e della complessità biologica.
 Per la biologia contano solo gli aspetti misurabili in termini di reazioni biochimiche, che sono in grado di produrre quelle modificazioni cosiddette fenotipiche dalla biologia molecolare, risultato dell’espressione dei geni. Questa posizione, solo apparentemente realistica, è alla base di quella visione biologizzata della vita che, soprattutto nella moderna neuroscienza, si illude di definire il fenomeno vitale riducendo tutto a reazioni chimiche. Non più la grossolana teoria secondo la quale «l’uomo è ciò che mangia», ma una più sottile proposta di ridurre l’essere umano ai soli aspetti biologici, negando di fatto di riconoscerlo come persona.
 Si tratta di una mentalità riduzionista che ha conquistato terreno proprio in quella parte della medicina il cui interesse era volto a valorizzare e utilizzare le conoscenze biologiche. E questo in un periodo nel quale la biologia rivolge il suo interesse verso gli aspetti più delicati e radicali (per esempio, la genetica) che stanno all’origine stesso della vita biologica. In questo modo la biologia ha ormai invaso tutti i campi del vivere sociale (dalla produzione agricola all’allevamento animale, dalla criminologia alla medicina) e ridotto tutto a pura tecnologia del manipolabile.
 L’arte medica — perché di arte si tratta — si è appropriata di strumenti di ricerca sofisticati (ma molti assolutamente rozzi e approssimativi, come le tecniche di fecondazione in vitro, ibridazione e clonazione). Facendo poi proprie le tecnologie biologiche, le ha applicate in un contesto che le ha sempre più utilizzate per definire la cosiddetta qualità della vita. La scoperta di potere manipolare gli elementi primordiali quali i caratteri genetici e le cellule embrionali ha generato perfino l’illusione di essere in grado di spiegare il senso stesso della vita, fino all’assurda, infantile pretesa di poterla creare (per esempio, con gli esperimenti sulla cosiddetta vita artificiale). La medicina rischia così di non essere più considerata come una modalità personalizzata di prendersi cura dell’essere umano nella sua interezza (dalla diagnosi alla terapia per vincere o controllare la malattia e, laddove non si riesca a curare, accompagnare verso la fine naturale). Nella cosiddetta biomedicina, quindi, sta il rischio di non distinguere la biologia dalla medicina.
 Medicalizzazione della biologia o biologizzazione della medicina? Qualunque sia la risposta, è una strada rischiosa che non sembra favorire un approccio umano integrale. Suona allora più che attuale la descrizione che il Papa ha delineato di una Facoltà cattolica di medicina come un «luogo dove l’umanesimo trascendente non è slogan retorico, ma regola vissuta della dedizione quotidiana», che pone «al centro dell’attenzione la persona umana nella sua fragilità e nella sua grandezza, nelle sempre nuove risorse di una ricerca appassionata e nella non minore consapevolezza del limite e del mistero della vita».

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