Il successo dell’epigenetica mette in discussione il riduzionismo
genetico - Il prof. Paolo Tortora informa dei risultati di studi recenti – di
Paolo Tortora, docente di Biochimica presso l’Università di Milano Bicocca, 15
maggio, 2012, http://www.uccronline.it
Una recente ricerca condotta in
collaborazione tra un gruppo di scienziati di Ginevra e uno di Montpellier, e
pubblicata sulla rivista specializzata Translational Psychiatry, riporta una
scoperta di grande interesse nel campo della genetica (Perroud N, et al., 2011
Transl Psychiatry 1, e59). La ricerca in questione dimostra che esperienze
negative vissute nell’infanzia possono produrre, nei soggetti che le hanno
subite, modificazioni epigenetiche del DNA.
L’epigenetica studia quelle
modificazioni ereditabili dei caratteri codificati nel genoma (che è l’insieme
del patrimonio genetico di un organismo) non provocate da mutazioni in senso
classico, vale a dire da cambiamenti della sequenza in basi del DNA. Le basi
molecolari delle modificazioni epigenetiche sono alquanto complesse: si tratta
di un repertorio di modificazioni chimiche del DNA medesimo tra cui le più
frequenti sono le metilazioni; oppure di ulteriori modificazioni che
interessano gli istoni, quelle proteine che nei cromosomi sono strettamente associate
al DNA. L’epigenetica non è in realtà una scienza recentissima, anche se il suo
maggiore sviluppo ha avuto luogo soprattutto negli ultimi 15-20 anni, nei quali
è emerso che un numero sempre maggiore di eventi coinvolti nella regolazione
dell’espressione genica possiede una componente epigenetica.
Tornando all’articolo citato, gli
autori hanno dimostrato che soggetti maltrattati nell’infanzia presentano
metilazioni in quel tratto di DNA (gene) denominato recettore dei
glucocorticoidi, che ha il ruolo di attivare gli effetti fisiologici di questi
ormoni controllando a sua volta l’espressione di un determinato repertorio di
altri geni. Tali effetti sono molteplici e diversificati, ed includono anche
l’adattamento a situazioni di stress. Nel caso descritto da questi ricercatori,
le condizioni ambientali hanno dunque prodotto una modificazione permanente del
genoma. Senza stabilire un rigoroso determinismo, gli autori del lavoro
scientifico ritengono anche plausibile che tale modificazione si traduca in disturbi
della personalità, o perlomeno determini una maggiore predisposizione ad essi.
Tali osservazioni suggeriscono quindi la possibilità che il genoma venga
modificato dall’ambiente, ed è proprio in questo che risiede il loro
particolare interesse. Come sopra accennato, ciò non rappresenta in realtà una
novità assoluta, come attestano le numerose pubblicazioni scientifiche comparse
negli anni recenti nel campo dell’epigenetica. Interessante a questo riguardo è
in particolare l’opera della ricercatrice israeliana Eva Jablonka (si veda in
particolare il suo libro “Evoluzione quattro dimensioni”, Utet, 2009).
Ma oltre alla possibilità che
l’ambiente modifichi il genoma attraverso meccanismi epigenetici, altri
contributi scientifici hanno messo addirittura in evidenza la possibilità che
tali modificazioni epigenetiche possano essere trasmesse alla progenie. A
questo riguardo, due studi sono famosi, tra gli altri. Uno studio classico
concerne gli eventi legati alla carestia in Olanda nel 1944-1945 (Luney, LH, 1992
Paediatr Perinat Epidemiol 6, 240-253.). I bambini nati in quel periodo erano
sottopeso rispetto a quelli nati prima e dopo; inoltre in età adulta avevano
una maggiore incidenza di cardiopatie e altre malattie croniche. Tali
osservazioni non presentano nulla di sorprendente, date le condizioni di
denutrizione che questi soggetti avevano dovuto sopportare durante la loro vita
intrauterina. Ma la scoperta inaspettata fu che le donne nate in quel periodo e
diventate a loro volta madri, diedero alla luce bambini essi stessi sottopeso e
più soggetti a cardiopatie. L’interpretazione di gran lunga più plausibile di
tali risultati è che tali caratteristiche siano state trasmesse alla seconda
generazione attraverso modificazioni epigenetiche del genoma. Il secondo
esempio è molto simile e riguarda gli effetti di un ormone estrogeno sintetico,
il dietilstibestrolo. Diversi decenni fa si scoprì, sia nel caso di esseri
umani che di animali da esperimento, che l’esposizione durante la vita
intrauterina a tale composto poteva produrre alterazioni permanenti che si
sarebbero manifestate nella vita adulta come anormalità degli organi
riproduttori, in particolare neoplasie dell’utero (Newbold et al. 2006
Endocrinology 147, S11-S17). Di nuovo, si osservò anche che tali anomalie
potevano essere trasmesse alle generazioni successive, una circostanza che
indica chiaramente un meccanismo di trasmissione epigenetico.
Si deve dunque riabilitare il
Lamarckismo, vale a dire l’antica teoria che sosteneva l’ereditarietà dei
caratteri acquisiti? E in aggiunta, che impatto hanno queste osservazioni sulle
teorie Darwiniste? A queste domande non è né possibile né opportuno dare
riposte semplici. Innanzitutto, tali scoperte non mettono in discussione le
leggi fondamentali della trasmissione dei caratteri ereditari, secondo le quali
questi ultimi sono primariamente codificati nella sequenza in basi dei vari
geni. In merito alla teoria Darwinista nelle sue varie formulazioni, non si può
negare che essa abbia una sua autoevidenza, là dove asserisce che la
variabilità di caratteri viene generata casualmente (in senso moderno si tratta
di mutazioni che interessano la sequenza in basi del DNA), e che i caratteri
più adatti alla sopravvivenza della specie sono quelli che tendono a diventare
prevalenti nelle generazioni successive. Tuttavia la domanda da farsi è in che
misura tali schemi interpretativi possano rendere conto pienamente
dell’evoluzione biologica e dell’origine della straordinaria varietà di “phyla”
e di specie che conosciamo. Ebbene, ritengo che ad oggi nessuno abbia
sufficienti elementi per dare una risposta esaustiva a tale domanda.
In effetti, le scoperte citate
mettono in evidenza che gli elementi in gioco circa le leggi dell’eredità dei
caratteri e dell’evoluzione, sono ben più complesse di quanto non si ritenesse
solo pochi decenni fa. A questo riguardo mi pare opportuno descrivere una
dinamica normale sottesa al progresso della conoscenza scientifica in qualsiasi
ambito. Accade che scoperte fondamentali si traducano nella formulazione di
teorie che rivoluzionano in tutto o in parte le concezioni preesistenti. Ora,
tali nuove teorie non rappresentano soltanto un punto di arrivo nel progresso
della conoscenza, ma sono anche senza eccezione un punto di partenza per
ulteriori sviluppi. Da questi emerge successivamente un quadro interpretativo
che presenta una complessità inizialmente insospettata. L’attuale successo e
sviluppo dell’epigenetica costituisce una documentazione molto eloquente di una
tale dinamica. Essa dimostra che non è possibile considerare il Darwinismo come
un recinto entro il quale racchiudere tutti i fattori implicati nei meccanismi
evolutivi e dell’eredità. Piuttosto, esso può rappresentare una buona ipotesi
di lavoro da prendere come punto di avvio per ampliare lo sguardo, così da
formulare teorie nuove che riconducano ad una visione organica sia le vecchie
che le nuove conoscenze. Dunque il darwinismo non può essere considerato un
dogma immutabile, come in qualsiasi ambito della conoscenza scientifica.
Da ultimo, mi sembra anche
opportuno notare che le scoperte menzionate mettono anche seriamente in
discussione quelle concezioni riduzionistiche, secondo le quali il
comportamento delle specie viventi, inclusa quella umana, sia riconducibile
deterministicamente al funzionamento dei geni. Qualsiasi specie, ma soprattutto
quella umana, è irriducibile a schemi interpretativi elementari, e il caso
della epigenetica non è che uno dei molteplici elementi che smentiscono questa
visione della biologia e dell’uomo.
Nessun commento:
Posta un commento