Sull’autismo non raccontiamoci favole, ma storie vere, 3 maggio 2012,
di Chiara Sirianni, http://www.tempi.it
Andrea ha appena compiuto
diciotto anni e gli è stata diagnosticata una grave forma di autismo da quando
ne ha tre. Suo padre, Franco Antonello, si trova davanti a un’estate come
tante: gli amici che mandano i figli ai centri estivi, li affideranno ai nonni,
li porteranno con loro in campeggio, mentre a lui toccano le solite
preoccupazioni: chi sta con Andrea? Cosa fargli fare? Come riempire le giornate
per arrivare a settembre senza esaurire ogni energia nel difficile tentativo di
trovargli costantemente delle occupazioni? E nasce un’idea, avventata forse,
strampalata, ma che diventa vera man mano: una moto, una cartina, due zaini in
spalla e l’America da percorrere. Coast to coast, un grande classico. È una
sorta di terapia d’urto, scandita da una regola principale: “Occhio sempre a
papà”.
Il loro viaggio è diventato un
libro (Marcos Y Marcos editore, 320 pagine, 17 euro) che si intitola Se ti
abbraccio non aver paura. È la frase che i genitori hanno fatto scrivere su
tutte le magliette di Andrea, che ha un’irredimibile tendenza a distribuire
baci, abbracci, e a toccare le pance delle persone, con una speciale
predilezione per gli sconosciuti. Il romanzo, scritto dal trevisano Fulvio
Ervas (qui l’intervista), cui Antonello ha raccontato la sua storia davanti a
uno spritz, ancora prima di uscire è diventato un vero e proprio caso: complice
il passaparola e qualche passaggio televisivo, in due giorni la prima edizione
ha esaurito tutte le copie.
«Siamo contesi tra trasmissioni e
interviste. Oggi mi sono arrivate cinquemila email di sconosciuti. La gente si
è appassionata e ovviamente fa piacere. Ma il mio timore è che si voglia vedere
solo una parte della storia: i grandi orizzonti, la polvere che si alza sotto
il sole cocente, i fast food, tutto l’immaginario da road trip insomma, e il
legame indissolubile padre-figlio. Che ovviamente c’è, ed è fortissimo, come è
stato meraviglioso il nostro viaggio. Ma attenzione, non è fiction. E non è
tutto rose e fiori. Rose e fiori occorre cercarli bene». L’ha scritto anche
Andrea, sul computer che usa per comunicare, una sorta di imperativo, di
avvertenza: “Non raccontiamo favole ma storie vere”. A voce si esprime in modo
sconnesso, pronuncia parole secche: a casa, in giro, quello verde.
Com’è la vita di tutti i giorni?
«Andrea sta bene fisicamente, con lui si possono scalare le montagne. Ma
convivere con i ragazzi affetti da autismo, che spesso hanno difficoltà anche
maggiori delle sue, a volte è davvero un calvario. Non si sa come comportarsi,
non si capisce se hanno freddo o fame. Non socializzano con nessuno. Lo fai con
tutto l’amore del mondo, ma a volte è umano, ci si stanca. La chiave di volta
sta nelle parole che pronunciò il nostro medico, per spiegarmi come fosse
l’autismo. Mi disse: la vita è imperfetta, ma ha una sua forza». La malattia
viene diagnosticata quando ha trenta mesi. «Ero andato a Siena, a ritirare gli
ennesimi esami. Per trecento chilometri ho riempito la macchina di urla e di
lacrime. È stato il mio modo di entrare in fondo alla realtà. Però in quel
momento ho capito che non avrei sopportato una vita scandita da un continuo
pianto senza lacrime. L’avrei affrontata con rabbia, ma anche con
responsabilità, con intenzione. Con positività. Non sarei rimasto lì a
inghiottire vicoli ciechi».
E l’idea dell’America nasce
proprio così: se fatica deve essere, tanto vale che sia un’autentica avventura.
Tra i dubbi dei parenti, degli amici e dei medici. Perché in genere le persone
autistiche sono a loro agio solo in situazioni prevedibili. «Mi sono chiesto: rispetto
di più Andrea tenendolo al riparo dal mondo o portandolo a riempirsi gli occhi?
Ero combattuto. Sentivo, nel giudizio degli altri, che forse lo percepivano
come una sorta di cavalcata a briglie sciolte».
Visto il grande successo del
libro, c’è stato un effetto emulazione? «Non vorrei che scattasse. Non intendo
dire assolutamente che ogni figlio autistico vada trascinato su un moto per
38.000 chilometri dagli Usa all’Amazzonia. Al tempo stesso non c’è, purtroppo,
nessun libretto di istruzioni. Si sa molto poco, di questa malattia. E io ho
provato a fare apposta il contrario di tutto. Ho capito che è fondamentale non
circondare i nostri figli di tristezza, questo sì, ma di piccole cose speciali:
una passeggiata, un cinema. È stato un esperimento: se fosse successo qualcosa
avrei preso il primo aereo e sarei tornato a casa. Invece ogni giorno è stato
migliore di quello precedente, tutto mi stupiva, avevo sempre qualcosa da
annotare la sera. È tornato molto più sorridente: dritto, fiero di sé». In
mezzo, un viaggio fatto di vento nei capelli, cameriere portoricane, baci al
chiaro di luna, musica, sciamani, bagni nell’oceano, patatine fritte, cimiteri
indiani, palafitte, carne alla griglia, carezze ai coccodrilli, incontri.
«Andrea è il miglior compagno di viaggio
che abbia mai avuto. Nella vita, intendo. Prima avevo tutta una serie di
priorità: personali, professionali, materiali anche. Adesso tutto viene in
secondo piano, dopo le sue esigenze. E soprattutto acquista un senso. A volte
ci lamentiamo anche perché piove. Anche le cose più drammatiche, viste con gli
occhi di un ragazzo che per tutta la vita è destinato a stare chiuso nel suo
involucro, diventano leggero come l’aria. Fa venire fuori l’anima che hai
dentro. Viene anche a te la voglia di abbracciare le pance degli sconosciuti. È
la misteriosa dinamica di certe partenze: vai a capire che cosa si muove
dentro, tra la pancia e il cervello».
@SirianniChiara
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