venerdì 4 maggio 2012


Sull’autismo non raccontiamoci favole, ma storie vere, 3 maggio 2012, di Chiara Sirianni, http://www.tempi.it

Andrea ha appena compiuto diciotto anni e gli è stata diagnosticata una grave forma di autismo da quando ne ha tre. Suo padre, Franco Antonello, si trova davanti a un’estate come tante: gli amici che mandano i figli ai centri estivi, li affideranno ai nonni, li porteranno con loro in campeggio, mentre a lui toccano le solite preoccupazioni: chi sta con Andrea? Cosa fargli fare? Come riempire le giornate per arrivare a settembre senza esaurire ogni energia nel difficile tentativo di trovargli costantemente delle occupazioni? E nasce un’idea, avventata forse, strampalata, ma che diventa vera man mano: una moto, una cartina, due zaini in spalla e l’America da percorrere. Coast to coast, un grande classico. È una sorta di terapia d’urto, scandita da una regola principale: “Occhio sempre a papà”.

Il loro viaggio è diventato un libro (Marcos Y Marcos editore, 320 pagine, 17 euro) che si intitola Se ti abbraccio non aver paura. È la frase che i genitori hanno fatto scrivere su tutte le magliette di Andrea, che ha un’irredimibile tendenza a distribuire baci, abbracci, e a toccare le pance delle persone, con una speciale predilezione per gli sconosciuti. Il romanzo, scritto dal trevisano Fulvio Ervas (qui l’intervista), cui Antonello ha raccontato la sua storia davanti a uno spritz, ancora prima di uscire è diventato un vero e proprio caso: complice il passaparola e qualche passaggio televisivo, in due giorni la prima edizione ha esaurito tutte le copie.
«Siamo contesi tra trasmissioni e interviste. Oggi mi sono arrivate cinquemila email di sconosciuti. La gente si è appassionata e ovviamente fa piacere. Ma il mio timore è che si voglia vedere solo una parte della storia: i grandi orizzonti, la polvere che si alza sotto il sole cocente, i fast food, tutto l’immaginario da road trip insomma, e il legame indissolubile padre-figlio. Che ovviamente c’è, ed è fortissimo, come è stato meraviglioso il nostro viaggio. Ma attenzione, non è fiction. E non è tutto rose e fiori. Rose e fiori occorre cercarli bene». L’ha scritto anche Andrea, sul computer che usa per comunicare, una sorta di imperativo, di avvertenza: “Non raccontiamo favole ma storie vere”. A voce si esprime in modo sconnesso, pronuncia parole secche: a casa, in giro, quello verde.


Com’è la vita di tutti i giorni? «Andrea sta bene fisicamente, con lui si possono scalare le montagne. Ma convivere con i ragazzi affetti da autismo, che spesso hanno difficoltà anche maggiori delle sue, a volte è davvero un calvario. Non si sa come comportarsi, non si capisce se hanno freddo o fame. Non socializzano con nessuno. Lo fai con tutto l’amore del mondo, ma a volte è umano, ci si stanca. La chiave di volta sta nelle parole che pronunciò il nostro medico, per spiegarmi come fosse l’autismo. Mi disse: la vita è imperfetta, ma ha una sua forza». La malattia viene diagnosticata quando ha trenta mesi. «Ero andato a Siena, a ritirare gli ennesimi esami. Per trecento chilometri ho riempito la macchina di urla e di lacrime. È stato il mio modo di entrare in fondo alla realtà. Però in quel momento ho capito che non avrei sopportato una vita scandita da un continuo pianto senza lacrime. L’avrei affrontata con rabbia, ma anche con responsabilità, con intenzione. Con positività. Non sarei rimasto lì a inghiottire vicoli ciechi».
E l’idea dell’America nasce proprio così: se fatica deve essere, tanto vale che sia un’autentica avventura. Tra i dubbi dei parenti, degli amici e dei medici. Perché in genere le persone autistiche sono a loro agio solo in situazioni prevedibili. «Mi sono chiesto: rispetto di più Andrea tenendolo al riparo dal mondo o portandolo a riempirsi gli occhi? Ero combattuto. Sentivo, nel giudizio degli altri, che forse lo percepivano come una sorta di cavalcata a briglie sciolte».

Visto il grande successo del libro, c’è stato un effetto emulazione? «Non vorrei che scattasse. Non intendo dire assolutamente che ogni figlio autistico vada trascinato su un moto per 38.000 chilometri dagli Usa all’Amazzonia. Al tempo stesso non c’è, purtroppo, nessun libretto di istruzioni. Si sa molto poco, di questa malattia. E io ho provato a fare apposta il contrario di tutto. Ho capito che è fondamentale non circondare i nostri figli di tristezza, questo sì, ma di piccole cose speciali: una passeggiata, un cinema. È stato un esperimento: se fosse successo qualcosa avrei preso il primo aereo e sarei tornato a casa. Invece ogni giorno è stato migliore di quello precedente, tutto mi stupiva, avevo sempre qualcosa da annotare la sera. È tornato molto più sorridente: dritto, fiero di sé». In mezzo, un viaggio fatto di vento nei capelli, cameriere portoricane, baci al chiaro di luna, musica, sciamani, bagni nell’oceano, patatine fritte, cimiteri indiani, palafitte, carne alla griglia, carezze ai coccodrilli, incontri.

«Andrea è il miglior compagno di viaggio che abbia mai avuto. Nella vita, intendo. Prima avevo tutta una serie di priorità: personali, professionali, materiali anche. Adesso tutto viene in secondo piano, dopo le sue esigenze. E soprattutto acquista un senso. A volte ci lamentiamo anche perché piove. Anche le cose più drammatiche, viste con gli occhi di un ragazzo che per tutta la vita è destinato a stare chiuso nel suo involucro, diventano leggero come l’aria. Fa venire fuori l’anima che hai dentro. Viene anche a te la voglia di abbracciare le pance degli sconosciuti. È la misteriosa dinamica di certe partenze: vai a capire che cosa si muove dentro, tra la pancia e il cervello».

@SirianniChiara

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