«Esiste una sola famiglia», è rozza anche la Consulta? di Marco Ciamei,
22-09-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Oramai siamo tutti al corrente
del polverone sollevato dalle recenti dichiarazioni di D’Alema sul matrimonio
omosessuale, oltre che dalle sue successive immediate scuse per la presunta
“rozzezza” della sua interpretazione dell’art. 29 della Costituzione.
Sorvoliamo un attimo sul
comportamento ambivalente dell’uomo politico e sulla impressionante “capacità
di fuoco” delle lobby omosessuali (…e poi ci vengono a criticare per
l’Inquisizione di qualche secolo orsono!), concentriamoci piuttosto sulla
presunta “rozzezza” dell’interpretazione secondo cui l’art. 29 della
Costituzione impedirebbe il matrimonio tra omosessuali.
Dobbiamo passare davvero per
rozzi se facciamo una simile affermazione?
Che ne dite se lasciamo la parola
a chi, per competenza professionale e funzione istituzionale, davvero rozzo non
può essere definito nelle materie giuridiche: la Corte Costituzionale.
Farà piacere sapere che il 15
aprile 2010 è stato pubblicato il testo integrale della sentenza n. 138 della
Corte Costituzionale, con la quale sono stati “respinti” i ricorsi proposti da
due coppie di omosessuali.
Vogliamo esaminarla insieme?
Come funzionano le decisioni
della Corte Costituzionale.
Prima di tutto occorre spiegare
brevemente come funziona un giudizio di legittimità costituzionale.
Uno o più cittadini si rivolgono
ad un giudice per far valere quello che ritengono un proprio diritto. Questo
giudice si trova a dover fornire una risposta positiva o negativa che richiede
l’applicazione di una norma giuridica: questa norma, però, potrebbe essere
ritenuta dallo stesso giudice in contrasto con la Costituzione.
In questo caso, dunque, il
giudice rimette la “questione di legittimità costituzionale” davanti alla Corte
Costituzionale, la quale deciderà in tre modi:
a) inammissibilità se la questione non può
essere esaminata per motivi di procedura o semplicemente perché la Corte non si
può pronunciare per come richiesto dal giudice rimettente;
b) manifesta infondatezza, se la questione
non merita neppure di essere approfondita in quanto la norma denunciata dal
giudice rimettente è con tutta evidenza rispettosa della Costituzione;
c) fondatezza o infondatezza, se la
questione è tale da dover essere esaminata e, quindi, accolta o meno alla luce
delle argomentazioni fornite dalla Corte.
Nel caso di fondatezza, la norma
viene “espulsa” dall’ordinamento; nel caso di infondatezza, rimane intatta così
come era.
Sorvoliamo su alcune ipotesi,
diciamo così, “intermedie”: non ci interessano ora.
Il caso
Che è successo allora nel caso
deciso dalla Corte?
Una coppia di omosessuali ha
chiesto al funzionario comunale di procedere con le pubblicazioni di matrimonio
a loro favore, ma questi si è rifiutato poiché la richiesta della coppia si
poneva in contrasto con la legge italiana, secondo la quale il matrimonio è
solo tra uomo e donna.
La coppia allora ha fatto ricorso
al Tribunale di Venezia, opponendosi al rifiuto di pubblicazione in quanto
ritenuto in contrasto con la Costituzione. Il Tribunale di Venezia, dimostrando
di condividere le perplessità della coppia ricorrente, ha “rimesso” alla Corte
Costituzionale la questione di legittimità di tutta una serie di articoli del
Codice Civile “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non
consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso”.
Identico fatto è accaduto anche
ad un’altra coppia omosessuale, questa volta rivoltasi al Tribunale di Trento
(che ha dato loro torto) e poi alla Corte di Appello di Trento. Quest’ultima ha
anche essa rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli
articoli del Codice Civile già “denunciati” dal Tribunale di Venezia, con
argomentazioni del tutto analoghe.
Le argomentazioni a favore del
matrimonio omosessuale.
Il ragionamento fatto dalle
coppie omosessuali e poi ripreso dai Giudici rimettenti si basa
fondamentalmente su quattro punti.
Primo: l’art. 2 della
Costituzione.
Questo articolo riconosce e
tutela i diritti inviolabili dell’uomo singolarmente e nelle “formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità”: prima tra tutte la famiglia. Dunque,
il diritto di formare una famiglia e, quindi, di sposarsi, “configura un
diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale”,
ossia da numerose convenzioni internazionali, in primis CEDU (Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo) e Trattato di Nizza.
L’unico diritto fondamentale che
potrebbe, in astratto, entrare in conflitto con il matrimonio tra omosessuali
sarebbe solo quello dei figli di “crescere in un ambiente familiare idoneo,
diritto corrispondente anche ad un interesse sociale”: ma questo è un diritto
distinto dal matrimonio omosessuale e il problema può essere superato
semplicemente impedendo l’adozione dei minori da parte di sposi omosessuali,
come altri Ordinamenti hanno fatto.
Secondo: l’art. 3 della
Costituzione.
Lo conosciamo tutti: “tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”. Se, dunque, il matrimonio è un diritto
fondamentale e momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve
essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso
(uomo-donna) o dalle condizioni personali (come l’orientamento sessuale), con
conseguente obbligo dello Stato di prevedere il matrimonio anche per le coppie
omosessuali.
C’è in particolare una norma nel
diritto italiano che avallerebbe questa tesi: quella che consente il matrimonio
ai transessuali (legge 164/1982), cioè agli omosessuali che abbiano scelto di
subire un’operazione chirurgica per cambiare il sesso biologico. Questa legge
sarebbe la dimostrazione che è giusto valorizzare “l’orientamento psicosessuale
della persona”, piuttosto che il sesso biologico. Peraltro, sarebbe una
discriminazione consentire il matrimonio ad un omosessuale che ha cambiato
sesso biologico e, allo stesso tempo, negare il matrimonio ad un omosessuale
che, a differenza del trans, semplicemente non ha inteso cambiare sesso
biologico.
Interessante notare come il
Tribunale di Venezia dica apertamente che “per i diritti degli omosessuali,
così come per quelli dei transessuali, ci sono fortissime spinte, provenienti
dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni
tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive”.
Terzo: l’art. 29 della
Costituzione.
L’art. 29 afferma, sì, che la
Repubblica riconosce i diritti della “famiglia come società naturale fondata
sul matrimonio”, ma, da un lato, il riferimento alla “natura” riguarda solo la
preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato (per intenderci,
la famiglia esiste a prescindere dallo Stato e questo non può non
riconoscerla), dall’altro non si parla esplicitamente di distinzione tra sessi.
Le norme costituzionali, inoltre,
nella loro interpretazione e applicazione sono aperte alle trasformazioni
sociali ed è innegabile che negli ultimi anni sono nati modelli diversi da
quello tradizionale: basta pensare alla riforma del diritto di famiglia (1975)
e ai progetti di legge sui DICO … o come dir si voglia. Inoltre, l’aspetto
della potenzialità procreativa (che, ovviamente, le coppie eterosessuali hanno
e quelle omosessuali no) non è fondamentale nel matrimonio, altrimenti si
dovrebbe impedire il matrimonio alle coppie sterili.
Il matrimonio, in sostanza,
“sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze”: gli omosessuali hanno il
diritto di vivere pienamente la loro condizione anche scegliendo il proprio
partner della vita e ottenendo il giusto riconoscimento giuridico come accade
per i loro “fratelli” eterosessuali.
Quarto: l’art. 117, primo comma,
della Costituzione.
Questo è un aspetto non nuovo, ma
di certo non comune e non noto nel dibattito quotidiano su questo problema.
Tale norma costituzionale impone al legislatore il rispetto dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. A
questo riguardo rilevano le tante dichiarazioni universali dei diritti
dell’uomo, ma soprattutto la CEDU (già vista sopra) e la Carta di Nizza che –
così ritengono i “ricorrenti” – prevedono una serie di riconoscimenti in favore
del matrimonio tra omosessuali. La prima contempla il diritto al rispetto della
vita privata e familiare (art. 8), diritto al matrimonio (art. 12), divieto di
discriminazione (art. 14), la seconda ribadisce simili principi.
In particolare, c’è stata una
sentenza della Corte di Strasburgo (l’avete già sentita vero … i crocifissi
nelle scuole vi dicono niente?) che ha dichiarato contrario alla CEDU il
divieto di matrimonio, presente in una norma del Regno Unito, tra un
transessuale ed una persona del suo stesso sesso originario.
Senza considerare, poi, le
numerosissime dichiarazioni e raccomandazioni delle Istituzioni Europee che da
tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al
matrimonio tra omosessuali. Alcuni Stati come Olanda, Belgio e Spagna,
peraltro, hanno proprio preceduto in tal senso.
La posizione della Corte
Costituzionale.
Queste le argomentazioni, in
estrema sintesi, fatte valere davanti alla Corte Costituzionale.
Dunque, come ha deciso
quest’ultima? Nel seguente modo.
1.
Ha dichiarato inammissibile la
questione con riferimento all’art. 2 della Costituzione, “perché diretta ad
ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata”.
Dietro l’arido linguaggio tecnico
si nasconde un concetto molto semplice: se davvero l’art. 2 Cost. riconosce e
tutela i diritti inviolabili dell’uomo nelle “formazioni sociali ove si svolge
la sua personalità”, questo significa che la coppia omosessuale, quale
formazione sociale, può ben essere tutelata senza bisogno di ricorrere all’istituto
del matrimonio.
È sin troppo ovvio, infatti, che
deve essere escluso che l’aspirazione al riconoscimento della condizione di
“coppia” “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle
unioni omosessuali al matrimonio”: pensiamo ai Di.Co. o alle altre
denominazioni comunque usate per indicare i progetti di legge a tutela della
coppia omosessuale.
Con riguardo a tale parametro –
si badi bene, con riguardo solo allo specifico parametro dell’art. 2 Cost. – la
Corte ha riconosciuto che “spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena
discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le
unioni suddette”.
A questo e solo a questo si
potevano riferire i primi commentatori quando parlavano del rimando operato
dalla Corte al Legislatore: ma per disciplinare le coppie “di fatto”, non certo
per equiparare le coppie omosessuali a quelle eterosessuali in materia di
matrimonio.
Quest’ultima operazione è, nel
nostro sistema costituzionale, impossibile: lo si vedrà bene più avanti.
2.
Ha dichiarato infondata la
questione con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione.
Qui la Corte ha riconosciuto che
il termine “società naturale” fa riferimento solo al fatto che la famiglia
contemplata dalla norma ha dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che
questo deve riconoscere. Però ha precisato che, seppure è vero che le norme
costituzionali sono “duttili”, cioè si adattano all’evolversi della società, è
altrettanto vero che questa opera di adattamento “non può spingersi fino al
punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da
includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando
fu emanata”.
La domanda è: quali fenomeni e
quali problematiche furono considerati quando la costituzione fu emanata?
Insomma, a quale modello di famiglia i costituenti volevano fare riferimento
quando parlavano di “società naturale fondata sul matrimonio”?
La Corte ha così risposto: come
risulta dai lavori preparatori, “la questione delle unioni omosessuali rimase
del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché
[attenzione eh!] la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”. L’art.
29 della Costituzione, in buona sostanza, è stato formulato con preciso riferimento
al matrimonio così come era previsto dalla legislazione allora vigente, cioè
come unione tra uomo e donna. L’opzione matrimonio tra omosessuali, che pure
era presente nella società, venne chiaramente esclusa.
Così come il secondo comma, che
fa riferimento alla “uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, risulta
chiaramente essere stato pensato con riferimento alla sola condizione della
donna.
Nessuna violazione del principio
di uguaglianza, quindi, “in quanto le unioni omosessuali non possono essere
ritenute omogenee al matrimonio”: diritti uguali a condizioni uguali, diritti
diseguali a condizioni diseguali, questo è il vero principio di eguaglianza (la
Corte da sempre lo chiama “principio di ragionevolezza”).
Insomma – qui il cuore della
pronuncia – “in questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata
normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla
esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima
sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art.
29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole
discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute
omogenee al matrimonio”.
Nessuna rilevanza hanno, poi, i
riferimenti alla legge che consente il matrimonio ai transessuali: anzi, tale
riferimento costituisce un ulteriore argomento a favore del carattere
eterosessuale del matrimonio. È ovvio: se è consentito il matrimonio solo a quegli
omosessuali che hanno cambiato sesso biologico, ciò costituisce prova
incontestabile che è proprio l’elemento biologico ad essere predominante
nell’istituto del matrimonio.
3.
Invece inammissibile è stata
ritenuta la questione in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione.
Da un lato, la sentenza della
Corte di Strasburgo cui hanno fatto riferimento i giudici rimettenti non è
rilevante, poiché contemplava un caso (divieto di matrimonio tra un
transessuale, prima donna e poi uomo, con un altro uomo) che già la legge
italiana disciplina in senso positivo e, comunque, non riguarda il problema del
matrimonio tra persone dello stesso sesso biologico.
Quanto alle disposizioni delle
Convenzioni internazionali citate dai giudici rimettenti, queste disposizioni
esprimono principi del tutto generali e “non vietano e non impongono mai la
concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso”.
L’art. 12 CEDU, ad esempio, dice
solo che “Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare
una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”.
L’art. 9 CEDU dice che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una
famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano
l’esercizio”. In entrambi i casi si può vedere come, da un lato, non vi è un
riferimento alla condizione omosessuale, dall’altro, vi è sempre un rimando
alle legislazioni nazionali, mai un’affermazione di un diritto assoluto.
“Ancora una volta, con il rinvio
alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla
discrezionalità del Parlamento”: cioè, le convenzioni internazionali lasciano
liberi gli Stati di meglio disciplinare tali diritti. E gli Stati europei,
infatti, su tale argomento hanno assunto posizioni assai diverse, che vanno
dall’equiparazione delle coppie omosessuali al matrimonio civile, al
riconoscimento di alcuni diritti in capo alle coppie omosessuali.
Due considerazioni conclusive.
Primo. L’aver dichiarato “infondate”
le questioni riferibili all’art. 3 e 29 della Costituzione, affermando
esplicitamente che il matrimonio previsto dalla nostra costituzione è solo
quello tra uomo e donna, e che le pur doverose interpretazioni adeguatrici
della norma alle modificazioni sociali non possono spingersi sino a stravolgere
il “nucleo” delle norme, significa che in Italia è precluso al Parlamento
emanare una legge che preveda la possibilità di matrimonio alle coppie
omosessuali.
Secondo. Forse molti non sanno
che la Corte Costituzionale ha più volte detto che, proprio a causa dell’art.
117 della Costituzione, i principi espressi dalla CEDU devono essere rispettati
dalle leggi italiane e persino le sentenze della Corte di Strasburgo (Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo) devono essere recepite dal Parlamento, pena la
dichiarazione di incostituzionalità delle leggi per contrasto con l’art. 117.
Questo lo devono sapere coloro che affermano che le sentenze della Corte di
Strasburgo – un esempio a caso, quella sui crocifissi nelle scuole – non siano
rilevanti per l’Italia. Altroché se lo sono!
Però – e qui uno spiraglio di
luce – la stessa Corte Costituzionale ha sempre affermato che i principi della
CEDU (e quindi anche le sentenze della Corte Europea sui diritti dell’uomo) non
possono mai porsi in contrasto con altri principi costituzionali: in questo
caso, con il concetto della famiglia come “società naturale fondata sul
matrimonio” necessariamente tra un uomo e una donna.
Dunque, possiamo ben affermare –
senza paura di smentite – che per la nostra Costituzione la famiglia è solo
quella naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Lo ha ribadito
più volte la Corte Costituzionale (ricordate, è la sentenza n. 138 del 2010)
Caro D’Alema, puoi
tranquillamente smentire la smentita: la figura del “rozzo” lasciamola fare
agli altri!
Nessun commento:
Posta un commento