«Eutanasia: così i tribunali inglesi la legalizzano», di Elisabetta Del
Soldato, Avvenire, 22 settembre 2011
Parla Andrew Fergusson, alla
guida di un network di 40 associazioni contro il suicidio assistito: «Le nuove
linee guida per la magistratura hanno ottenuto l’effetto di evitare
l’incriminazione in 44 casi. E stanno incidendo sull’opinione pubblica del
Paese»
Da un anno e mezzo la Gran
Bretagna ha deciso che è compito della Procura della Corona stabilire se una
persona che ne aiuta un’altra a morire sia perseguibile o no dalla legge. Da
allora 44 casi di suicidio assistito sono stati indagati dalle autorità ma
nessuno di questi è stato perseguito. In tutti i casi il procuratore Keir
Starmer ha deciso che gli «assistenti al suicidio» avevano agito per «puri
motivi di compassione» e che metterli in prigione non sarebbe stato «nel
pubblico interesse». Molti si sono chiesti se queste linee guida non siano in
realtà un modo per eludere la legge che in Gran Bretagna tuttora vieta il
suicidio assistito e l’eutanasia e infligge fino a 14 anni di reclusione, pena
in realtà mai irrogata.
Andrew Fergusson è un ex medico condotto
che ha lavorato per 22 anni accanto a malati terminali, anziani e disabili, e
conosce a fondo la vulnerabilità di chi soffre. Presiede il centro di
consulenza di «Care not killing», network di oltre 40 organizzazioni che si batte
contro il suicidio assistito e l’eutanasia. «Il fatto che nessun caso sia stato
ancora perseguito – dice – è senz’altro motivo di preoccupazione. I nostri
sostenitori sono convinti che l’espressione contenuta nelle linee guida, "interamente
motivato da compassione", sia vaga. La sua interpretazione dipende dal
modo di pensare di chi applica la legge. Questi casi sono sempre di grande impatto
emotivo, e purtroppo è possibile interpretare le linee guida molto liberamente.
Nessuno di noi in realtà agisce spinto da un’unica motivazione: chi aiuta
un’altra persona a suicidarsi trae sempre qualche beneficio, fosse anche solo
quello di sentirsi sollevato da un peso».
Come viene affrontato oggi dalle
autorità un caso di suicidio assistito?
«Dopo aver ricevuto una
segnalazione – prosegue Fergusson – la polizia e la Procura hanno due compiti:
investigare le circostanze e stabilire che si tratti di suicidio assistito.
Quando il suicidio assistito è stato accertato, la Procura deve capire se la
persona ha agito solo per compassione o per altri motivi e decidere se
procedere all’incriminazione nel pubblico interesse».
Il fatto che non esistono
incriminazioni non potrebbe spingere la gente a pensare che il suicidio assistito
è tollerato?
«Chi vuole vedere legalizzato il
suicidio assistito sta usando il fatto che sinora non vi siano state
incriminazioni per riaffermare la necessità di cambiare la legge. Ma noi
restiamo convinti che qualsiasi Parlamento che consideri una riforma riconosca
anche il dovere di proteggere anziani, malati, disabili contro una minoranza di
lobbisti pro-eutanasia, e non voglia cambiare la legge. Lo abbiamo visto
chiaramente nel novembre 2010 al parlamento scozzese, dove la proposta della
deputata Margo MacDonald di introdurre il suicidio assistito fu bocciata da 85
deputati contro 16.
Qualche giorno fa un medico del
Surrey ha dichiarato pubblicamente di non aver alcuna paura di accompagnare una
sua paziente in Svizzera. Altri potrebbero imitarlo...
«Sì, queste affermazioni plateali
potrebbero avere ripercussioni e spingere altri a fare lo stesso. La nostra preoccupazione
è che, invece di aprire un ampio dibattito pubblico e prendere una decisione
democratica in Parlamento e vista l’assenza di incriminazioni, si insinui tra
la gente una crescente tolleranza nei confronti del suicidio assistito e di
conseguenza verso l’eutanasia. Qualcuno ha definito questo processo "legalizzazione
clandestina"».
Crede che stia già succedendo?
«Un medico che espone pubblicamente
le sue intenzioni lo fa perché sa di non rischiare la prigione.
Quello che possiamo fare è continuare
a controllare il lavoro della Procura che, come sappiamo, esamina ogni caso singolarmente.
Questo è positivo, perché fa da deterrente a chi crede di non rischiare nulla.
Continueremo anche a lavorare per spostare l’equilibrio dell’opinione pubblica
a favore delle cure palliative e non della morte».
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