Uomo, altro che scimmia
di Antonio Livi 20-09-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Nel supplemento Tuttoscienze, allegato al quotidiano La
Stampa di Torino del 14 settembre scorso, un sedicente scienziato straparla di
scimmie, di evoluzione e di morale, e rilancia al grande pubblico il vecchio
messaggio neopositivistico: la morale e la religione sono momenti di
un’evoluzione delle specie destinati fatalmente a essere superati, sia nella
coscienza che nel comportamento pratico. Addirittura l’articolo sfiora il
ridicolo quando afferma che «la morale è anteriore alla religione, anzi è anteriore
anche all’uomo».
Ma che vuol dire? Chi aveva la coscienza dei propri diritti e
dei propri doveri quando non c’erano ancora uomini sulla terra? Sullo sfondo di
questo rigurgito di neo-darwinismo per analfabeti c’è l’idea fissa degli
animalisti, ossia degli etologi che si affannano a dimostrare l’indimostrabile,
ossia che non c’è alcuna differenza di “qualità” tra l’uomo e gli animali,
perché sia l’uno che gli altri sono esseri viventi esclusivamente materiali. Il
logico corollario della teoria è che l’uomo non è dotato di facoltà spirituali,
ossia non ha un’anima immortale che lo rende capace di conoscere il bene e il
male e di rispondere liberamente all’amore di Dio che lo ha creato «a sua
immagine e somiglianza».
Già da quello che ho appena detto si capisce come l’articolo
della Stampa tocchi argomenti centrali della fede cristiana, minando le
fondamenta stesse della religione e della morale cattolica. Ma siccome queste
fondamenta sono costituite innanzitutto dalle verità che la ragione naturale raggiunge
con le proprie forze (sono quelle “premesse razionali della fede” che la Chiesa
ha sempre riconosciuto e difeso contro le false filosofie), occorre rispondere
con argomenti seriamente scientifici alle provocazioni dei materialisti che
pontificano sui giornali anticattolici (quello che si leggeva sulla Stampa non
è diverso da quello che si può leggere tutte le settimane nelle pagine della
“cultura” della Repubblica, del Corriere della Sera o del Sole – 24 Ore).
Prima ho qualificato (o meglio, squalificato) l’autore
dell’articolo della Stampa dicendo che è «un sedicente scienziato». Non si
tratta di livore polemico ma, appunto, di un’esigenza elementare di serietà
scientifica. Quando qualcuno scrive qualcosa in materia di una qualsiasi
scienza, facendo uso della libertà di opinione che si deve riconoscere a tutti,
a chi legge si deve riconoscere altrettanta libertà di opinione, e quindi la
facoltà di dissentire, di criticare. Uno che si presenta come scienziato di
fronte a un pubblico generico (dove ci sono anche specialisti della sua
materia, ma anche specialisti di altre materie o gente priva di istruzione
superiore) non può certamente pretendere «l’interiore ossequio dell’intelletto»
che invece pretende (legittimemente e giustamente) il magistero della Chiesa
dai cattolici. Quindi, la prima cosa da fare è non farsi prendere dal clima di
illogica venerazione fideistica nei confronti degli scienziati che parlano alla
televisione (in programmi come Superquark, Voyager eccetera) o scrivono sui
supplementi di scienza dei giornali come La Stampa. Poi bisogna passare a un
esame del messaggio, per vedere se la testi proposta a a che vedere con la
competenza scientifica dell’autore.
Ogni proposta scientifica, infatti, è valutata dagli stessi
scienziati in base a questi precisi criteri: 1) se si afferma qualcosa di
determinato e ben circoscritto; 2) se ciò che si afferma è attinente alla
materia e al metodo della ricerca scientifica nella quale l’autore è
competente; 3) se si esibiscono le prove di quanto si afferma (o prove
empiriche, o calcoli matematici, o deduzioni logiche). Ora, l’articolo in
questione è firmato da un tale (del quale non vale la pena di ripetere il nome)
che si presenta come etologo evoluzionista, e la sua tesi ? che riguarda la
morale e la religione ? è giustificata da ragioni derivate dallo studio del
comportamento delle scimmie. Ora, il metodo specifico dell’etologia (che è una
scienza empirica, che applica ai fenomeni del comportamento osservabile nel
mondo animale le tecniche che l’antropologia culturale e la psicologia sociale
applicano ai fenomeni del comportamento osservabile degli essere umani) esclude
in partenza che si possa trattare di morale e di religione, che non sono realtà
riducibili ai fenomeni del “comportamento osservabile” né degli uomini e tanto
meno delle bestie.
Posso fare un esempio, la psicologia della religione si
avvale principalmente dell’introspezione, il che significa che lo scienziato
prende in considerazione innanzitutto ciò che egli, come uomo, scopre dentro se
stesso: ed è evidente che il metodo dell’introspezione non si applica ad alcuna
ricerca sugli animali, perché gli scienziati, fino a prova contaria, non sono
delle bestie (e se lo fossero, non sarebbero certo capaci di introspezione). Un
altro esempio, gli studi più numerosi e importanti sulla religione realizzati
negli ultimi cinquant’anni sono stati condotti da scienziati della scuola
fenomenologica: e questa scuola non adotta altro metodo che non sia la
fenomenologia della coscienza. Insomma, da nessun punto di vista scientifico
una realtà come la religione può essere affrontato scientificamente sulla sola
base del rilevamento di fenomeni del comportamento esteriore. Su questa base,
come analizzare la conversione? Come parlare della speranza? Come rilevare la
«nostalgia del totalmene Altro» della quale parlava Horckheimer?
Lo stesso dicasi della morale. Si tratta di una realtà
intrinsecamente collegata alla razionalità, pertanto alla spiritualità
dell’anima umana. La moralità consiste nella percezione intellettiva dei propri
doveri dei propri diritti nei rapporti con gli altri esseri umani e poi anche
in relazione con Dio (qui la morale diventa il presupposto della prassi
religiosa). Sono capaci di “senso morale” (che è una componente essenziale del “senso
comune”) non tutti gli uomini ma solo quelli che hanno in atto «l’uso di
ragione», ossia quelli che in un determinato momento ? nel momento della scelta
su che cosa fare ? sono «capaci di intendere e di volere». Ora, sia l’intendere
che il volere sono atti spirituali che appartengono all’interiorità della
coscienza e che pertanto non possono in alcun modo essere ridotti a ciò che si
riflette esteriormente e che può essere notato da un osservatore esterno: le
azioni osservabili che derivano dalla libertà di una persona sono solo alcune
(e non le più imporanti) delle conseguenze di una scelta interiore tra il bene
e il male, ossia tra il valore e il disvalore di un’azione che risultano
evidenti a una persona grazie al “lume” della sua ragione. Che poi io sia
libero lo so solo io: è un fatto di coscienza.
Nessun osservatore di fenomeni fisici (sia pure in campo
psicologico o etologico) è competente in materia e nessuno può dirmi – con
fondati motivi – che io sono o non sono libero di scegliere tra i bene e il
male. Da Aristotele fino a oggi, la storia della filosofia è una continua e
incontrovertibile conferma che l’esistenza della libertà (e della conseguente
responsabilità morale) è un dato dell’esperienza interiore, è una certezza
immediata e indubitabile (per chi volesse approfondire questo argomento,
rimando al mio trattato, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e
della fede, Leonardo da Vinci, Roma 2010). Non sono i filosofi a dimostrare che
io sono libero: loro non possono dimostrarlo, e io lo so benissimo da me, e
questo mi basta.
La filosofia è fatta da persone che già sanno di esere
liberi, e la loro riflessione scientifica non fa che formalizzare in termini
metafisici questa evidenza primaria. Così come non sono gli scienziati che possono
negare che io sia libero: se uno di loro (come l’autore dell’articolo che ha
provocato questo mio commento) mi dice che non sono libero, io gli rispondo che
sta dicendo una sciocchezza, che un vero scienziato non parla di ciò che esula
dalla sua competenza.
Se poi, per difendersi con armi improprie, lo scienziato mi
dice che ci sono filosofi che negano la libertà, io gli rispondo che certamente
ci sono: sono i materialisti, che professano il determinismo, ma non sono in
grado di provarlo; anzi, nel loro discorso si contraddicono continuamente,
giustificando la loro battaglia contro l’idea della libertà e contro la morale
con motivi morali, come succedeva i marxisti quando affermavano il carattere di
“sovrastruttura” della morale (la struttura di base dovrebbe essere materiale,
cioè l’economia) e poi analizzavano sempre i conflitti sociali in termini
moralistici, dividendo gli uomini in buoni e cattivi, denunciando lo
«sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» ed esaltando la scelta a favore
della giustizia sociale e la «solidarietà rivoluzionaria».
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