Donne e natalità, quello che i vescovi non dicono di Riccardo Cascioli,
20-10-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Una relazione del direttore
generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, su donne e lavoro lamenta tra
l’altro l’arretratezza dell’Italia in fatto di occupazione femminile. Gli
ultimi dati Istat dicono infatti che il tasso di attività femminile è addirittura
in calo – 46,1% nel 2010 contro il 47% del 2008 -, ben lontano dagli obiettivi
fissati dall’Unione Europea che chiedevano per il 2010 un tasso del 60%.
Ci sarebbe molto da dire sul
fatto di identificare automaticamente il tasso di attività femminile con il
progresso della società, ma qui ci interessa riprendere questo dato per
un’altra osservazione.
Non può infatti sfuggire che a un
basso tasso di attività femminile in Italia corrispondano tassi di fertilità
tra i più bassi d’Europa. Sono due dati in aperta contraddizione con un’idea
largamente diffusa secondo cui si mettono al mondo pochi figli per la
difficoltà delle donne di conciliare il lavoro con la famiglia. Tanto è vero
che è proprio su questo principio che si fondano le politiche sociali dell’Unione
Europea che chiedono maggiore flessibilità nel lavoro, maggiore disponibilità
di servizi (vedi asilo nido) e via di questo passo.
In effetti le difficoltà per le
donne che lavorano ci sono e come, soprattutto in Italia, tanto è vero – sono
sempre dati Istat – che tra le madri che lavorano il 15% abbandona l’impiego
dopo il primo figlio (la metà contro la propria volontà), percentuale che si
impenna per le madri con tre o più figli. Da un punto di vista generale però
l’incidenza di queste difficoltà sui tassi di fertilità è sostanzialmente
marginale o comunque non decisiva. E lo dimostra anche il fatto che nei Paesi
nord europei, dove c’è una lunga tradizione di stato sociale che agevola in
tutti i modi il ritorno delle madri al lavoro, i tassi di fertilità – per
quanto più alti che in Italia – sono comunque ben al di sotto del livello di
sostituzione, ovvero 2,1 figli per donna.
Dunque il motivo principale per
cui non si mettono al mondo i figli non è economico e non è neanche legato alle
difficoltà nel mondo del lavoro.
Dov’è dunque il problema? Anche
se non è facilmente misurabile dalle statistiche, non c’è alcun dubbio che il
motivo principale che incide sui tassi di fertilità sia culturale. L’apertura
alla vita non è qualcosa di monetizzabile: chi ama la vita, chi ha una speranza
sul futuro, chi vive a fondo un rapporto di amore “desidera” avere figli e non
ci sono condizioni sociali ed economiche che tengano. Al massimo, le condizioni
esterne incidono sul numero dei figli facendo più o meno coincidere il loro
numero con quello desiderato. Vale a dire: coppie che hanno come ideale quattro
figli possono decidere di fermarsi a due o 3 se le condizioni economiche e
sociali creano problemi, ma certamente non decideranno di non averne.
Allo stesso modo chi si
concepisce come l’inizio e la fine della storia, chi è chiuso agli altri, chi
non vede un futuro oltre la propria vita, non avrà alcun desiderio di generare
figli, anche avendo le migliori condizioni economiche. Non c’è un assegno
sufficiente a compensare la fatica di tirare su dei figli così come non c’è
nulla che possa ripagare della gioia di tirare su dei figli.
Non è un caso che il tasso di
fertilità delle famiglie che seguono una religione – non solo quella cattolica
– sia più alto della media. Lo ha sintetizzato alcuni anni fa l’economista
americano Nicholas Eberstadt, spiegando la differenza di tassi di fertilità tra
Europa e Stati Uniti: «Se mettiamo a confronto le ricerche comparate sulla
fertilità negli Usa e in Europa, troviamo che la differenza è soprattutto nei
valori e nel credo religioso. Le famiglie "religiose" in Europa hanno
tassi di fertilità analoghi alle famiglie "religiose" negli Stati
Uniti, e lo stesso vale per le famiglie e coppie "non religiose". La
differenza nei tassi di fertilità, dunque, sta soprattutto nel fatto che negli
Usa ci sono più persone che seguono una religione».
Cosa vuol dire questo? Che se si
vuole davvero invertire la tendenza demografica è su questo fattore culturale e
religioso che bisogna concentrarsi. E questo vale soprattutto per la Chiesa.
Vale in particolar modo per tanti vescovi che spesso hanno la tentazione di
spiegare ai governi cosa devono fare per aiutare la famiglia e la natalità, ma
sono poi i primi a non credere fino in fondo che il primo contributo alla
natalità sia l’evangelizzazione, sia l’annuncio di una speranza che si fonda su
una certezza presente, sperimentabile. Ciò che è la missione propria della
Chiesa, la sua identità.
Certo, lo scopo
dell’evangelizzazione non è generare più figli, questa è solo una conseguenza.
Ma se nell’affrontare il tema della natalità non si ha chiaro dove sta il nodo
centrale, è il segno che non si crede che Cristo sia davvero la risposta
all’uomo nella sua totalità.
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