I dati che mettono in discussione le prassi sbrigative sui nati
prematuri di Carlo Bellieni (Il Foglio, 29 dicembre 2011)
Roma. Secondo uno studio
pubblicato sul numero di dicembre del Journal of the American Medical
Association, c’è più del 10 per cento di possibilità di sopravvivenza per i
nati alla 22esima settimana (un valore che aumenta, poi, a ogni settimana in
più passata
nel pancione). La ricerca,
condotta su oltre 10 mila casi di bambini nati tra le 22 e le 25 settimane dopo
il concepimento – cioè così prematuri che qualche anno fa si sarebbero dati per
morti – dà una risposta definitiva a tante polemiche: da appena dopo la metà
della gestazione, se si nasce in un centro di alta specializzazione, le
speranze di farcela non sono più assenti. Certo, i rischi per la vita e la
salute di questi piccoli ancora sono tanti e gravi, ma i progressi sono davvero
notevoli. La notizia è paradossale, visto che in mezzo mondo – in Italia per
ora ne siamo esenti – ci sono invece protocolli ufficiali che prevedono di non
soccorrere attivamente questi bambini e dare loro solo cure palliative,
lasciandoli praticamente morire.
Dominic Wilkinson ha spiegato
(sull’American Journal of Bioethics) che per decider se alcuni neonati possano
vivere, ci sono due strade: quella tradizionale è valutare se la futura vita
avrà più pesi che gioie e quindi decidere se sospendere le cure. Per questo computo
si usano un criterio probabilistico (la durata della gestazione) o parametri
che danno il livello di rischio (“rischio”, perché nei primi giorni non si
hanno strumenti prognostici esatti) di grave handicap futuro. Poi c’è la strada
proposta da Wilkinson: in certi casi, dare ai genitori la possibilità di
interrompere le cure salvavita anche per i neonati che avranno comunque “una
vita degna di essere vissuta”, cioè quelli in cui le gioie future saranno solo
un po’ più dei pesi.
Nulla di strano, se consideriamo
che non è raro leggere sulle riviste internazionali di bioetica che i neonati
non siano da considerare delle persone. E i neonati nei fatti sono davvero
considerati meno degli adulti, come dimostrano gli studi della canadese Annie
Janvier. Sulla rivista Pediatrics del 2009 compariva il protocollo usato da un
ospedale americano: “Alla nascita, in base alla richiesta delle famiglie e
d’accordo con lo staff medico, sono state date cure palliative al 38 per cento
dei prematuri nati alla 24esima settimana e al 17 per cento di quelli nati alla
25esima”. E’ bene sapere che a 24 settimane si ha il 58 per cento di
possibilità di farcela e a 25 settimane il 64 (Journal of Perinatal Medicine,
2009). Viste queste percentuali di sopravvivenza, perché limitarsi solo a cure
palliative? Ad adulti a rischio improvviso di morte dopo un ictus si
cercherebbe sempre di dar una chance. Per i bambini, invece, è diverso. Ma
tanta paura della disabilità è giustificata? Pare proprio di no, stando alle
ricerche che mostrano che il livello di qualità di vita delle persone disabili
è molto maggiore se viene valutato dallo stesso disabile, piuttosto che dagli
altri. Ma se la disabilità è un motivo per sospendere le cure a un bambino
nell’interesse dei genitori o perché si pensa che al disabile convenga morire,
come si guarderà il disabile adulto?
Ci aspettiamo che i dati del
progresso medico, così chiari, facciano riconsiderare il modo in cui si
guardano i piccolissimi, che nessuno vuole caricare di cure inutili, ma che
meritano quanto gli altri pazienti, quando è scientificamente possibile, una
chance
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