L'ONU in Giamaica: soldi per aborto di
Danilo Quinto, 29-12-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Che le organizzazioni
internazionali e, in particolare, l’intero apparato delle Nazioni Unite, con le
sue varie articolazioni, abbiano promosso e favorito, negli ultimi decenni,
l’interruzione di gravidanza, in nome della cosiddetta salute riproduttiva e della
pianificazione familiare, è provato da innumerevoli documenti pubblici, da
resoconti di riunioni e da testimonianze.
Tra queste, ve n’è una,
recentissima, diffusa dalla Fondazione di Diritto Pontificio, Aiuto alla Chiesa
che soffre. «Ho scoperto - ha dichiarato padre Richard Ho Lung, fondatore
dell’Ordine monastico Missionari dei Poveri, nato nella capitale giamaicana nel
1981 e diffuso oggi in tredici Paesi - che buona parte dell’aiuto umanitario è
subordinato al cambiamento della legge che permette il ricorso all’aborto
esclusivamente in caso di anomalie fetali, di pericolo per la madre e in
seguito a stupro o incesto».
Una modifica alla quale le
autorità di governo hanno rinunciato da tempo, dopo che in un sondaggio il 65%
dei giamaicani si è detto contrario all’interruzione volontaria di gravidanza.
L’attuale legislazione della Giamaica prevede la possibilità di interrompere la
gravidanza in tre casi: quando il feto presenta malformazioni, quando la salute
della madre è a rischio, e quando la gravidanza è frutto di stupro o incesto.
«Considero gli aiuti internazionali "denaro insanguinato" - ha
aggiunto il religioso - perché legati alle agenzie di pianificazione familiare
che sposano il ricorso all’aborto». Per padre Ho Lung, il sostegno proveniente
da Europa e Stati Uniti dovrebbe essere destinato alla costruzione di scuole,
infrastrutture e ospedali «incondizionatamente e non per influenzare la vita
interna e la politica del Paese beneficiario».
I Missionari dei Poveri, grazie
alle numerose donazioni, tra le quali 30mila offerti dai benefattori di Aiuto
alla Chiesa che soffre, hanno deciso di creare una struttura a Kingston - si
chiamerà Santi Innocenti (Holy Innocents Women in Crisis Center) - che dal prossimo mese di gennaio garantirà
ogni giorno assistenza gratuita a più di duecento donne e avrà venti stanze per
accogliere mamme e bambini. «Non basta dire che è sbagliato porre fine a una
vita che cresce - ha sostenuto padre Ho Lung - si deve fornire un’alternativa
pratica e propositiva». Il primo risultato dell’impegno pro-vita dell’Ordine è
la piccola comunità di suore che si è formata negli ultimi nove mesi ed è già
al lavoro. In questi giorni, in una clinica del centro aperta al pubblico, le
sei religiose assistono circa un centinaio di mamme in attesa ogni settimana.
Anche così, nei Paesi poveri del
mondo, si tenta di arginare, per quanto possibile, questo modo scellerato del
sistema delle Nazioni Unite di sostenere la legalizzazione dell’aborto e di
diffonderne la pratica.
Nell’ottobre del 2007, fu
lanciata a New York un’iniziativa globale, che includeva l’invito a legalizzare
l’aborto, promossa da diverse agenzie dell’ONU e Organizzazioni non
governative. Tra i patrocinatori dell’iniziativa – denominata Deliver Now for
Women and Children – anche il Fondo
delle Nazioni Unite per i bambini (UNICEF), che ufficialmente nega il proprio
sostegno all’aborto sotto qualsiasi forma. Presentata come una campagna facente
parte dei Millennium Development Goals (gli Obiettivi del Millennio decisi
dall’ONU nel 2000) per sensibilizzare sulla salute delle donne e dei bambini,
il programma di Deliver Now prevedeva tra l’altro un invito all’aborto sicuro,
che è sinonimo di aborto legale. E’ stato coordinato dalla Partnership for
Maternal, Newborn & Child Health, diretta da Kul Gautam, Vicedirettore
esecutivo dell’UNICEF e assistente del Segretario generale dell’ONU, e i cui
membri comprendono, tra gli altri, la Fondazione Bill & Melinda Gates, la
International Planned Parenthood Federation (IPPF), le Agenzie per lo sviluppo
di Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Bangladesh, nonché l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) ed il Fondo ONU per la Popolazione (UNFPA).
Riunita a New York per la propria
sessione annuale del 2008, con all’ordine del giorno l’“eliminazione di tutte
le forme di discriminazione e violenza contro giovani donne e bambine”, la
Commissione sullo status delle donne (Csw), l’organismo delle Nazioni Unite che
si occupa dell’“uguaglianza di genere” e della situazione femminile nel mondo,
bocciò la richiesta avanzata dalla delegazione americana perché fosse inserito
nel documento finale un chiaro divieto di infanticidio e di aborto finalizzato
alla selezione del sesso del nascituro. Alla decisione concorsero tutti i paesi
che praticano l’aborto selettivo, ma anche il Canada e i paesi europei. Della
proposta formulata dagli Stati Uniti rimasero solo tre righe, nelle quali ci si
limitò a definire “non etiche” le pratiche di infanticidio delle bambine e di
selezione prenatale del sesso.
Questa la risposta della
Commissione ONU sulla salute delle donne rispetto ad un problema denunciato da
due decenni. Amartya Sen, Nobel per l’Economia, negli anni ’90, per primo
parlò, in un famoso saggio sulla New York Review of Books, di cento milioni di
“bambine sparite” in Asia.
Un ruolo decisivo rispetto alla
promozione delle pratiche abortive per la prevenzione delle morti fra le donne
e per promuovere la loro salute nei paesi poveri, è svolto dall’IPPF
(International Planned Parenthood Federation), formata nel 1952 a Bombay, in
India e ora è composta da più di 149 associazioni che operano in più di 189
Paesi. Nello scorso mese di ottobre, i vescovi del Canada si sono rivolti al
Primo Ministro, criticando la decisione del governo canadese di finanziare le
attività dell’IPPF, che - è scritto nella lettera - “lavora con determinazione
per eliminare tutte le leggi che in vari Paesi vietano l’aborto e per farlo
riconoscere come un ‘diritto’ umano universale”. La lettera fa riferimento alla
“Muskoka Initiative on Maternal, Newborn and Under-Five Child Health”,
un’iniziativa lanciata nel 2010 dai Paesi membri del G8 che prevede lo
stanziamento di circa 7 miliardi di dollari per la salute materna e infantile
nel mondo e, in particolare, alla decisione della Canadian International
Development Agency (Cida), l’agenzia di svilluppo internazionale del Governo
canadese, di concedere nei prossimi tre anni 6 milioni di dollari alla IPPF per
promuovere “programmi educativi” in cinque Paesi: Afghanistan, Bangladesh,
Mali, Sudan, Tanzania.
Il Relatore Speciale delle
Nazioni Unite per il diritto alla salute, Anand Grover, con l’avvallo del
Segretario Generale, ha presentato nello scorso mese di novembre il rapporto
annuale sul Diritto di ciascuno a godere del più alto standar di salute fisica
e mentale conseguibile. Nel rapporto, si sostiene: «Le leggi che sanzionano e
limitano l’aborto indotto sono esempi paradigmatici di barriere insormontabili
alla realizzazione del diritto delle donne alla salute e devono essere
eliminate; la proibizione penale dell’aborto è una chiara espressione
dell’interferenza dello Stato con la salute sessuale e riproduttiva della donna
perché limita il controllo di una donna sul suo corpo». Dopo aver criticato le
restrizioni all’accesso alla pratica abortiva, incluse le norme che permettono
l’obiezione di coscienza a medici e farmacisti poiché «servono a rafforzare lo
stigma dell’aborto come pratica sgradevole», nelle raccomandazioni conclusive,
il relatore ha chiesto agli Stati di «depenalizzare l’aborto, comprese le leggi
correlate come quelle che riguardano il favoreggiamento in materia di aborto e
di prendere le misure per assicurare che i servizi di aborto legale e sicuro
siano disponibili, accessibili e di buona qualità».
Il delegato dell’Unione europea e
il rappresentante dell’ UNFPA (United Nations Population Fund), l’agenzia ONU
che con i suoi programmi promuove l’aborto selettivo nei paesi del terzo mondo,
si sono detti d’accordo con queste affermazioni. Recensioni
Siamo di fronte alla realtà di un
sistema internazionale che nei fatti disprezza il diritto alla vita - sul quale
si fondano tutti gli altri diritti - e che rende di grande attualità la Carta
di San José, il recente documento promosso da Robert George, dell’Università di
Princeton e dall’ex Ambasciatore americano in Asia, Grover Joseph Rees, che
all’articolo 1 recita: «Come dimostrato dalla scienza, ogni vita umana inizia
dal concepimento».
Gli estensori della carta
ritengono che proprio nei documenti internazionali, già ratificati e in vigore
in tutti gli Stati membri dell’ONU, è il diritto alla vita e non certo
all’aborto ad essere tutelato. Non esiste un diritto di tal genere, spiega il
quinto di tali Articoli, né in base alla Costituzione formale né a quella
materiale né alla consuetudine: «né per effetto di trattati vincolanti né per
effetto della legge internazionale ordinaria». «Gli organismi di controllo dei
trattatii», continua all’articolo 6, «non hanno alcuna autorità, né in base ai
trattati che li hanno istituiti né in base alle norme generali del diritto
internazionale, d’interpretare detti trattati in modi che generino nuovi
obblighi per gli Stati o che alterino la sostanza dei trattati stessi».
A parere dei firmatari della
“Carta”, il «diritto all’aborto» esiste nelle «affermazioni delle agenzie
internazionali», nelle “pressioni esercitate” su Governi e membri delle società
«al fine di far loro adottare leggi che legalizzino o depenalizzino l’aborto».
Il diritto a sopprimere la vita umana viene materialmente sancito da programmi
economici di promozione e finanziamento degli aborti, dalle affermazioni
implicite o esplicite di Organismi di controllo dei trattati, di agenzie, di
funzionari e tribunali della liceità di tale atto.
Siamo di fronte a un paradosso
tragico: l’affermazione del diritto alla vita, nel contesto globale, deve fare
i conti proprio con i programmi delle organizzazioni internazionali e del
sistema delle Nazioni Unite, che invece di tutelare il bene primario, come
sarebbe loro obbligo principale, tendono a favorirne la soppressione. L’unica
strada per sovvertire questo ordine delle cose, è quella culturale e educativa,
soprattutto nei confronti delle popolazioni povere del mondo, irretite anche
dalle lusinghe degli aiuti umanitari da dispensare in cambio della soppressione
della vita nascente.
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