LECTIO MAGISTRALIS su “SCIENZA E CURA DELLA VITA: EDUCAZIONE ALLA DEMOCRAZIA” di Angelo Bagnasco* , http://www.scienzaevita.org/ Newsletter di Scienza & Vita n°52, del 21 Dicembre 2011
Saluto i partecipanti al
Convegno sul tema “Scienza e cura della vita: educazione alla
democrazia”, e ringrazio l’Associazione
“Scienza & Vita” per questa iniziativa
che affronta una questione quanto mai delicata
e ineludibile non solo per ogni singola persona, ma anche per la società, sapendo che
dalla responsabilità e dai modi di affronto della
vita nei suoi vari momenti si ha una
prima e decisiva misura del livello
umano della convivenza. Siamo tutti consapevoli della delicatezza dell’ argomento in
gioco, così come delle
visioni diverse che spesso si confrontano, tanto da essere
considerata – la vita umana – uno di quegli argomenti “divisivi” di cui è meglio non
parlare, come se l’ordine sociale,
basato sulla giustizia, potesse
reggersi sull’ ingiustizia che deriva dal non affrontare ciò che fondamentale:
“ come Chiesa e come credenti – abbiamo
scritto nel Documento conclusivo della XLVI Settimana Sociale – siamo chiamati al grande
compito di servire il bene comune della
civitas italiana in un momento di grave
crisi e allo stesso di memoria dei centocinquant’anni
di storia politicamente unitaria” (Documento
conclusivo, Reggio Calabria ottobre 2010, n.2). E’ questo lo spirito e l’intendimento
dei cattolici consapevoli che,
storicamente, “se non abbiamo fatto abbastanza
nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” (CEI, La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, 1981,
n.13). Tutti ci rendiamo conto che siamo dentro ad una crisi internazionale che non risparmia nessuno, e
che nessuno, nel mondo, può atteggiarsi
da supponente maestro degli altri. I grandi
problemi dell’economia e della finanza,
del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile della natura,
attanagliano pesantemente persone,
famiglie e collettività, specialmente i
giovani. Su questi versanti, che declinano la cosiddetta “etica sociale”, la sensibilità
e la presenza della Chiesa sono da
sempre sotto gli occhi di tutti. Fanno
parte del messaggio cristiano come
inderogabile conseguenza: “Chi
non ama il proprio fratello che vede, non
può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20). L’incalcolabile rete di vicinanza e di
solidarietà che abbraccia l’intero
territorio nazionale grazie ai nostri sacerdoti, consacrati, innumerevoli volontari,
associazioni, rappresenta una mano tesa
trasparente, universalmente nota: è
quotidianamente frequentata da un
crescente stuolo di fratelli e sorelle in difficoltà che ricevono
ascolto, aiuto, attenzione. Ed è sempre più anche luogo di incontro e di concreta
integrazione tra popoli, religioni e
culture. Una rete che si avvale di risorse
provvidenziali e di quell’amore gratuito che nessuna legge può garantire poiché l’amore
viene dal cuore e dall’Alto.
1. E’ possibile conoscere?
Ma oggi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla vita umana nella sua nudità: è evidente
che gli aspetti citati fanno parte
dell’esistenza concreta di ogni persona,
ma essi non devono oscurare la vita nei momenti
della sua maggiore fragilità e quindi di
più pericolosa esposizione. Per questo
credo sia inevitabile allargare, seppur
brevemente, l’orizzonte per poter meglio
affrontare il tema della vita umana
nella sua assoluta indisponibilità o, se
si vuole, sacralità. Per poter parlare di qualcosa, infatti, bisogna innanzitutto chiederci se esiste qualcosa fuori di noi. E,
se esiste, possiamo conoscerla? Oppure
siamo dentro ad una realtà unicamente
costruita dal soggetto pensante, siamo
alle prese solo con le nostre opinioni individuali, senza una presa diretta sulla realtà oggettiva?
E’ il problema antico ma non scontato
della conoscenza. Come rispondere? Dando
fiducia al mondo e all’uomo! La
conoscenza, infatti, parte da un atto positivo, di fiducia: fa appello al senso comune,
all’esperienza universale. E’ più
naturale, logico, istintivo, porre questo atto di fiducia oppure sfiduciare l’universo?
E’ dunque un atto di sintonia, di comunione preriflessa con il mondo il punto di partenza del nostro
rapportarci con il mondo, non il
rinchiuderci nel sospetto e nel dubbio metodico
e universale che – forse con aria di profonda intelligenza – accusa di fanatismo chi affermi
che la verità esiste ed è conoscibile.
La storia umana della conoscenza –
nonostante grovigli a volte sofferti – corre sostanzialmente su questo filo e testimonia
che, ogni qualvolta lo scetticismo si è
imposto, gli esiti personali e sociali
non sono stati più felici. Il figlio di questo atteggiamento è lo
scetticismo che genera inevitabilmente
quel nulla di significato e di valore,
quello svuotamento della vita e del mondo che già Nietzsche aveva annunciato. In realtà egli
lo fa derivare dalla dichiarata “morte
di Dio”, ma quando la ragione viene
cancellata dall’ orizzonte, anche la fede si indebolisce: “Cerco Dio! Cerco Dio! (…) Dove
se n’è andato Dio? – gridò – ve lo
voglio dire! Siamo stati noi ad
ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma
come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Che mai
facemmo a sciogliere questa terra dalla
catena del suo sole? Dov’è che si muove
ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da
tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare?
E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non
stiamo forse vagando come attraverso un
infinito nulla?” (Nietzsche, La gaia
scienza, Mondadori 1971, pagg. 125-126). Il nichilismo di senso e di valori nasce da una
visione materialista dell’uomo e del
mondo, e si alimenta allo spettro ridente
del consumismo che porta a concepire l’esistenza
come una spasmodica spremitura di soddisfazioni
e godimenti fino all’estremo. Ma ben presto
– lo vediamo nella cronaca – ne deriva una immane svalutazione della vita. Essa non è più
custodita dal sigillo della sacralità, e
così quando non è più gradita o risulta
faticosa, la si vorrebbe eliminare. “Si
va costituendo – dice Benedetto XVI -
una dittatura del relativismo che non
riconosce nulla come definitivo e che
lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Questa ideologia è divenuta un modo di
vivere, una prassi, che troviamo
presente in molti ambiti e che ha
diversi volti” (J. Ratzinger, Omelia della Messa Pro eligendo Pontifice, 18.4.2005).
2.
Cos’è la verità?
“Cos’è la verità?” chiedeva
Pilato a Gesù prigioniero davanti a lui.
E’ una domanda sempre attuale che
richiede una risposta seria e motivata. Per aiutarci con un esempio, possiamo dire che la
verità della cappella Sistina consiste
nella sua corrispondenza con l’idea di
Michelangelo: in questo caso, la Sistina dipende dal pensiero di chi l’ha ideata. Ma la
verità della mia idea dell’aula in cui siamo consiste nella corrispondenza della mia idea con ciò che è oggettivamente davanti a me: in altre parole è
il mio pensiero che dipende dall’oggetto
conosciuto. La tradizione culturale
parla di verità ontologica nel primo caso,
e di verità logica nel secondo. E’ vero
che nella conoscenza logica il soggetto entra
in gioco con la sua soggettività,
ma mai a tal punto da falsare la realtà stessa;
infatti ognuno di noi si ribella quando
si sente conosciuto da un altro in modo
distorto. Ora, se dal piano teoretico passiamo al piano
pratico dell’agire, ci chiediamo: nella
conoscenza dei valori morali in quale campo siamo? Ontologico, per cui siamo noi, come Michelangelo, a creare
qualcosa? oppure in quello logico per
cui noi dobbiamo piegarci alla realtà di
qualcosa che ci precede e che non ammette distorsioni? Oggi si tende a pensare che, sul
piano dell’etica, ognuno è costruttore
di ciò che per lui, soggettivamente, ha
importanza e significato; che il nostro compito è quello di comporre i diversi, a volte opposti,
valori; che l’importante
– quando va
bene - è disturbare
gli altri il meno possibile. Ma non esiste qualcosa a cui l’uomo possa rifarsi nella sua
conoscenza e quindi adeguarsi
raggiungendo così la verità? E’ fuori dubbio
che non pochi di quelli che chiamiamo valori appartengono alla sfera della soggettività
individuale e sociale, basta pensare al modo di vestire, di
nutrirsi, a tante convenzioni che hanno
un peso nella convivenza, hanno una
importanza, ma sono destinati nel tempo a mutare. Ma è tutto solo così? Non esiste nulla
di oggettivo in grado di essere metro
della verità morale? Che possa regolare,
normare i miei comportamenti? Qualcosa
che sia talmente fondamentale per l’uomo da essere universale, cioè per tutti? Di
solito, fino ad un certo punto di questo ragionare tutti si è concordi, ma quando entra in gioco la questione del “valido
per tutti”, allora si accende una spia e
sorge in noi una trincea difensiva quasi
si sentisse in pericolo la propria libertà individuale, che si esprime nell’
autodeterminazione.
3. La libertà e l’autodeterminazione
Entra sulla scena, dunque, la libertà nervo
sensibile dell’anima moderna. Mi pare
interessante ricordare quanto affermava
Hegel nella sua Enciclopedia delle scienze
filosofiche: “La libertà è l’essenza propria dello spirito e cioè la sua stessa realtà. Intere
parti del mondo, l’Africa e l’Oriente,
non hanno mai avuto questa idea (…) i
Greci e i Romani, Platone e Aristotele (…) non l’hanno avuta: essi sapevano che l’uomo è realmente
libero in forza della nascita (come cittadino ateniese, spartano, ecc.); o della forza del carattere o della
cultura, in forza della filosofia.
Quest’idea è venuta nel mondo per opera del
cristianesimo, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, l’uomo è destinato ad avere relazione
assoluta con Dio come spirito, e far sì
che questo spirito dimori in lui. cioè
l’uomo è destinato in sé alla somma
libertà” (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Tr. It., Laterza, Bari 1951, pp. 442-443). Del resto è
noto che, prima del Cristianesimo, si
concepiva come superiori all’uomo le
grandi potenze del Fato, della Natura, della Storia; ed egli doveva obbedire a queste
forze. Ora, se l’uomo è libero per dono di Dio, ed
egli si realizza attraverso l’esercizio
della propria libertà (in actu exercito),
bisogna chiederci se qualunque forma di esercizio
realizza la persona oppure no. A ben vedere, come qualunque
agire non si qualifica da sé ma è qualificato da ciò verso cui tende - camminare
per fare una passeggiata non è lo stesso che camminare per andare a fare una rapina – così la libertà, se
per un verso è valore in se stesso in quanto è condizione di responsabilità, per altro verso non è la
sorgente della bontà morale. La libertà
è qualificata dal contenuto che scelgo
liberamente, e sta ad esso come il contenitore sta al suo contenuto. Il fatto che un atto sia una mia scelta non
qualifica l’agire come buono, vero, giusto. Inoltre, non bisogna dimenticare che la bontà e il male morale non sono astrazioni lontane alle quali sacrificare gli uomini nei loro desideri individuali; il bene
è tale perché mi fa crescere come persona mentre il male mi diminuisce nella mia umanità. E se le persone
crescono nel loro essere persone, la
società intera cresce dato per acquisito
che tra l’individuo e la collettività vi è un rapporto reciproco. Oggi la tendenza diffusa è rendere la libertà individuale un valore assoluto,
sciolto non solo da vincoli e norme ma
anche indipendente dalla verità di ciò che sceglie; in tale modo però
essa si rivolta 6 contro l’uomo e perde se stessa, diventa
prigioniera di se stessa come ogni personalità
narcisista. Ecco perché il Signore Gesù
ricorda che la verità libera la libertà e
rende libero l’uomo. Oggi vi è
una certa allergia per ciò che si
presenta come assoluto, cioè oggettivo, universale e definitivo: sembra di sentirsi come in una gabbia
insopportabile. Ma, dobbiamo chiederci,
qual’ è la vera prigione: l’assolutismo
di una libertà individualista o l’assolutezza della verità?
4.
Partecipazione dei cattolici alla civitas
Ma torniamo alla domanda: esiste
qualcosa con la quale la nostra libertà
deve rapportarsi come ciò che la precede
nel valore e la qualifica morente? Qualcosa
che, conosciuto dalla nostra ragione, permetta di superare l’angusto cerchio dell’opinione e
di camminare liberi nella verità oggettiva
per tutti e per sempre? Verità che dia
senso al vivere e alla storia, alla persona
e alla società? Risuonano sempre attuali le parole di Schopenauer quando parlava della
“naturale disposizione metafisica dell’uomo”, quella disposizione universale che spinge ciascuno a suo modo a
cercare una risposta alla più tremenda e
fondamentale delle domande: “Per quale
motivo esiste qualcosa piuttosto che il
nulla se nulla ha necessità di esistere?”. Una verità, dicevo, che crei appartenenza e generi
una comunità di vita e di destino?
Oppure non esiste altro che vari,
piccoli e brevi significati, relativi alla riuscita nella vita, al piacere, alle voglie, alle emozioni, alla fortuna? Ogni anno in Europa muoiono circa
50.000 persone per suicidio, e in
una quindicina di Paesi europei la più
alta percentuale di morte dei giovani è costituita
dal suicidio! Se tutto è relativo, merita ancora vivere quando la vita mostra le sue
durezze? La Chiesa, inviata dal suo Signore come sale
della terra e luce del mondo, svolge la
sua missione evangelizzatrice in molti
modi, con la Parola, i Sacramenti e il servizio della carità. Fa parte del suo servire il
mondo l’essere con umiltà e amore
coscienza critica e sistematica della storia:
non è arroganza, ingerenza o intransigenza, ma fedeltà a Dio e agli uomini. E’ portare il suo
contributo alla costruzione della
civitas terrena. Per questo non c’è da
temere per la laicità dello Stato, infatti il principio di laicità inteso come “autonomia della sfera
civile e politica da quella religiosa ed
ecclesiastica – ma non da quella morale
– è un valore acquisito e riconosciuto dalla
Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto (…). La laicità, infatti,
indica in primo luogo l’atteggiamento di
chi rispetta le verità che scaturiscono
dalla conoscenza naturale dell’uomo che vive
in società, anche se tali verità sono nello stesso tempo insegnate da una religione specifica,
poiché la verità è una” (Congregazione
per la Dottrina della Fede, Nota
dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici
nella vita politica, 24.11.2002, n.
6). E’ dunque giusto riconoscere la rilevanza
pubblica delle fedi religiose: però se
il semplice riconoscimento è già un valore auspicabile e dovuto, dall’altro è
fortemente insufficiente in ordine alla costruzione del
bene comune e allo
stesso concetto di
vera laicità. Potremmo
dire che è come una cornice di apprezzabile valore ma
che deve essere riempita di contenuti.
Fuori dall’immagine, la laicità positiva
non può ridursi a rispetto e a procedure corrette, ma deve misurarsi con l’uomo, per
ciò che è in se stesso universalmente,
cioè con la sua natura. E’ questa - la sua conoscenza integrale e il suo rispetto
plenario - che invera le diverse culture
e ne misura la bontà o, se si vuole il livello intrinseco di umanesimo. A questo livello primario si colloca il doveroso
apporto dei cristiani come
cittadini, consapevoli che le principali virtù di chiunque si dedichi al servizio della
città è la competenza e il merito:
questo è l'insieme di onestà, spirito di
sacrificio e stile sobrio. Essi offrono il loro contributo senza per questo dover mettere tra
parentesi la propria coscienza formata
dalla Dottrina Sociale della Chiesa, dal
Magistero autentico e da una solida vita spirituale nella comunità ecclesiale,
ricordando che la coscienza è l’eco
della voce di Dio – come affermava il beato
Newman – ed deve essere sempre attenta perché le opinioni, le ideologie, gli interessi o le
abitudini, non oscurino quella suprema
voce che indica la via della verità e
del bene. Il ministero di Pietro, che è servizio di verità e di carità, è posto da Cristo Gesù perché la coscienza non si smarrisca tra gli
innumerevoli rumori del mondo.
5. Umanesimo e umanesimi
Se, come ha affermato il Santo
Padre Benedetto XVI, “la questione
sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 75), allora i cattolici non possono
tacere circa la concezione dell’uomo che
fonda l’umanesimo integrale. Non tutti
gli umanesimi, infatti, sono equivalenti sotto il profilo morale; da umanesimi differenti
discendono conseguenze opposte per
la convivenza civile. Se si concepisce l’uomo in modo individualistico,
come oggi si tende, come si potrà
costruire una società aperta e solidale
dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? E se lo si concepisce in modo materialistico, chiuso
alla trascendenza e centrato su se
stesso, un “sasso” che rotola nello spazio, come riconoscerlo non come “qualcosa” tra altre cose, ma come “qualcuno”
che è qualitativamente diverso dal resto
della natura? L’uomo si autotrascende
nel senso che è sempre più di se stesso, tende ad andare oltre di sé per essere sé, già
e non ancora, finito e desiderio di
infinità, tempo ma con la scintilla di
eterno: è la creatura di confine fra cielo e terra, umano ma chiamato all’intimità con Dio. Individuo ma non individualista, unico ma non
chiuso, soggetto aperto al mondo e agli
altri in virtù dell’istinto di comunione
nella verità e nell’amore. “ Il mondo moderno
– scriveva J. Maritain – confonde semplicemente due cose che la sapienza antica
aveva distinte: confonde l’individualità
e la personalità” ( J. Maritain, Tre
riformatori, Brescia 1964, 26). Purtroppo, segnali inquietanti di questa
tragica confusione non mancano. 7 Su che cosa, allora, si potrà poggiare la
sua dignità inviolabile, e quale il
fondamento oggettivo e perenne dell’ordine
morale? Era questa la domanda che il Santo Padre Benedetto XVI poneva nel viaggio
apostolico nel Regno Unito e anche a in
Germania. E sta proprio qui il punto di
incontro e d’intesa di ogni dialogo civile e politico, sta qui il giudizio di verità su ogni società, cultura e religione: “La Chiesa cattolica è
convinta di conoscere, attraverso la sua
fede, la verità sull’uomo e quindi di
avere il dovere di intervenire in favore che sono validi per l’uomo in quanto tale indipendentemente dalle varie culture. Essa
distingue fra la specificità della sua
fede e le verità della ragione, a cui la
fede apre gli occhi e alle quali l’uomo in quanto uomo può accedere anche a prescindere da
questa fede. (…). La Chiesa, al di là
dell’ambito della sua fede, considera
suo dovere difendere, nella totalità della nostra
società, le verità
e i valori, nei quali è in gioco la
dignità dell’uomo in quanto tale.
Quindi, per citare un punto
particolarmente importante, non abbiamo diritto di giudicare se un individuo sia ‘già persona’, oppure ‘ancora
persona’, e ancor meno ci spetta manipolare l’uomo e voler, per così dire, farlo. Una società è veramente umana soltanto quando protegge senza riserve e rispetta la dignità di ogni persona
dal concepimento fino al momento della
sua morte naturale” (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore tedesco, Roma 7,11,2011). Non si
tratta quindi di voler imporre la fede e
i valori che ne scaturiscono
direttamente, ma solo di difendere i valori costitutivi dell’umano e che per tutti sono
intelligibili come verità
dell’esistenza. Poiché appartengono al DNA della persona non possono essere conculcati,
né parcellizzati o negoziati attraverso
mediazioni che, pur con buona
intenzione, li negano. E’ questo il ceppo vivo e solido che costituisce l’etica della vita,
ed è su questo ceppo che germogliano
tutti gli altri necessari valori che vengono
riassunto con etica sociale. Tra questi, la vita umana, dal suo concepimento alla sua fine naturale, è certamente il primo. La coscienza universale
ha acquisito - e sancito almeno nelle
carte - una elevata sensibilità verso i
più poveri e deboli della famiglia umana.
Ma ci dobbiamo chiedere: chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure
hanno voce per affermare il proprio
diritto, e che spesso nemmeno possono
opporre il proprio volto? …Vittime invisibili ma reali! E chi più indifeso di chi non ha voce
perché non l’ha ancora
o, forse, non
l’ha più? La
presa in carica
dei più poveri e indifesi esprime
il grado più vero di civiltà di un corpo
sociale e del suo ordinamento. E modella, educa, l forma di pensare e di agire – il
costume- di un popolo e di una Nazione,
il suo modo di rapportarsi al suo interno, di sostenere le diverse
situazioni della vita adulta sia con
codici strutturali adeguati, sia nel segno dell’attenzione e della gratuità personale. A volte si evidenzia che un conto è la presa
in carica, il prendersi cura della vita
fragile di chi questo vuole e comunque
ne ha diritto, e un altro sarebbe la volontà diversa di chi
determina un diverso
comportamento. Torniamo ad un punto
cruciale: se la libertà individuale abbia o non abbia qualcosa di più alto a cui
riferirsi e a cui obbedire. Abbiamo
visto che l’autodeterminazione non crea il bene e il male, ma ciò che è
scelto. Ora la libertà è tenuta a fare i
conti con la natura umana, con il suo
bene oggettivo poiché per questo Dio ce l’ha donata, perché costruissimo noi stessi e non per
andare contro noi stessi. Ma anche fuori
da un’ottica religiosa, penso si possa
giungere alla medesima conclusione. A questo punto credo che le questioni siano due.
Innanzitutto, come anche recita la
nostra Costituzione, il bene della salute
e quindi della vita, ma dovremmo dire ogni uomo, è un bene non solo per sé ma anche per gli
altri; e questi altri non sono solamente
i familiari e gli amici – che purtroppo
a volte possono non esserci – ma sono la
società nel suo insieme. Qui sta una nota dolente a cui bisogna sempre più reagire: se l’uomo sta
scivolando dalla realtà di persona a
quella di individuo assoluto e geloso
della propria assoluta indipendenza e autonomia, allora la società si concepirà come una massa
di monadi dove ciascuno si arrangia a
portare la vita, nutrendo dei diritti
verso il corpo sociale come la casa, il
lavoro, la sicurezza… ma lasciando gli
altri fuori per tutto il resto. Il punto
non è far entrare la società nel privato, ma si tratta di ricuperare la natura relazionale
della persona sicché la società possa e
debba concepirsi e strutturarsi non solo
come erogatrice di servizi, ma come comunione di destino. Cambia totalmente la prospettiva.
Nessuno deve sentirsi solo e abbandonato
nella società- comunione, né nei momenti di gioia né negli appuntamenti del dolore, della malattia e
della morte. E se dietro al rispetto di
ogni volontà ci fosse il desiderio di
non prendersi in carica, poiché il
prendersi cura richiede intelligenza e cuore, tempo e sacrificio,
risorse umane e economiche? Una cultura
siffatta sarebbe più rispettosa o più
egoista, umana o violenta? E poi, mi sembra
esiste un secondo nodo: dobbiamo recuperare il senso del dolore che è sistematicamente
emarginato, nascosto nella sua
naturalità, oppure è esorcizzato somministrandone
dosi massicce e continuative nel tentativo
di anestetizzare la sensibilità della gente e renderla quindi impermeabile. Due modalità
diverse ma lo scopo è identico: far
morire la morte. La cultura contemporanea
deve riconciliarsi con il dolore e la morte
se vuole riconciliarsi con la vita, poiché i primi fanno parte della seconda. E quindi dobbiamo recuperare la capacità di portarlo insieme. La
persona sofferente ha paura di essere
sola, abbandonata: tutti abbiamo
sperimentato quanto una persona malata cerchi
il contatto fisico della mano dell’altro, e questo piccolo, umanissimo gesto ha il potere di
tranquillizzare e rasserenare. E’ la
presenza, la compagnia d’amore che dobbiamo
riscoprire non solo come singoli e famiglie, ma come società. Ma per questo dobbiamo
rimettere al centro la relazione,
sull’esempio di Dio che in Cristo ci ha
incontrato nel nostro dolore, nelle molte fragilità della vita e nelle stesse gioie, facendo
sentire che nessuno è solo, e che
assolutamente nessuno sarà da Lui abbandonato.
Grazie.
* Arcivescovo di Genova, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
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