RAPPORTO TRA MEDICO E PAZIENTE NELL'ERA DELLE BIOTECNOLOGIE - Un
convegno sul tema si è svolto il 26 novembre scorso presso la facoltà di
Medicina dell'Università di Pisa di Aldo Ciappi, Presidente di Scienza e Vita
di Pisa e Livorno
ZI11121812 - 18/12/2011
Permalink:
http://www.zenit.org/article-29048?l=italian
PISA, domenica, 18 dicembre 2011
(ZENIT.org).- Nell’aula magna della facoltà di Medicina dell’Università di
Pisa, si è tenuto il 26 novembre scorso un convegno organizzato dai medici e
dai giuristi cattolici pisani sul tema: “rapporto tra medico e paziente
nell’era delle biotecnologie”.
Dopo i saluti del Vescovo, del
Preside della Facoltà e del Presidente del Tribunale, la Prof. Maria Luisa Di
Pietro, medico, docente all’Università Cattolica di Roma ha ricordato che la
professione medica esige una vera e propria “vocazione”; oggi più che mai, in
una società che non sa dare un significato al dolore e che rimuove il pensiero
della malattia e della morte. Nel paziente e nei suoi familiari si creano
spesso attese che non possono essere esaudite e che finiscono per minare alla
base il rapporto con il medico.
Secondo la stessa Organizzazione
Mondiale della Sanità, la salute non è più assenza di malattia, bensì uno
“stato complessivo di benessere”, in realtà, in natura, piuttosto raro essendo
la “salute” un concetto dinamico, una situazione di equilibrio variabile da situazione
a situazione (p. es. la persona disabile, pur essendo priva di requisiti
classici del soggetto “sano”, non può dirsi per se stessa “malata”), anche in
funzione del senso che il malato riesce a dare alla propria condizione.
Si richiede, quindi, al medico,
di essere anche dispensatore di “buona” filosofia in un mondo impreparato di
fronte a tali problemi.
Egli deve porsi dal punto di
vista del malato, il quale ha sensibilità e percezioni ben diverse dal soggetto
sano, soprattutto nelle patologie rispetto alle quali (si pensi al cancro) la
sua collaborazione è decisiva. Ciò è importante – ha sottolineato la Di Pietro
- con riguardo alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, cui si vorrebbe
dare rilevanza giuridica con apposita legge, rispetto alle quali non si pone
attenzione al fatto che chi le dovrebbe redigere non è un “paziente” bensì una
persona sana che, dunque, ha una percezione tutta teorica della malattia, ben
diversa da quella di chi ne è realmente affetto.
Il rapporto che si instaura tra medico-paziente
è strettamente “personale” e deve incentrarsi sulla fiducia dettata dalle
specifiche competenze del medico che agisce secondo “coscienza” per la cura del
malato. Da questo incontro personale nasce l’atto “medico”, che riguarda tutti
gli operatori sanitari ad anche le strutture.
Gli atti medici, poi, non sono
mai “paritari” e il medico non deve porsi né come un freddo “tecnico” né
apparire troppo coinvolto emotivamente. Non deve lasciar trasparire tensioni e
dubbi personali sui temi della vita e della morte; deve guardare alla persona
nell’insieme e non all’ organo da guarire.
Per la medicina cd.
“essenzialista” anche se cambia il contesto sociale, resta invariata la
gerarchia del valori cui si ispira la medicina, obiettivo della quale è sempre
e solo il bene del paziente, da intendersi non solo nell’ accezione biomedica,
ma anche secondo la sua percezione soggettiva (senza però essere vincolante per
il medico).
Altro termine da abbandonare
perché contraddittorio – secondo la Di Pietro - è quello di “accanimento
terapeutico”; se la cura è proporzionale e adeguata allo scopo (la guarigione,
il mantenimento, l’accompagnamento) essa non è mai accanimento; altrimenti non
è “cura”.
Nei casi in cui per salvare la
vita si debba incidere su parti del corpo menomandone l’integrità, il medico
deve cercare, con un’azione di persuasione, di rimuovere le opposizioni e i
timori del paziente ma senza imposizioni. Il bene del paziente non lo
stabilisce solo e sempre il medico secondo il modello della cd. “medicina
paternalistica”.
Tuttavia, in certi casi, quando
non è possibile, p. es. per motivi di urgenza, ottenere il consenso
dell’interessato, la responsabilità ultima resta affidata al medico che è
tenuto, sempre, a fare il possibile per salvare la vita.
Il bene del p. non coincide,
neppure, con ciò che egli stesso ritiene tale (cd. “modello dell’ autonomia”);
una volta esposta l’informazione, il medico non ha esaurito il suo compito
perché assai raramente ha dinanzi a sé un paziente “competente”; questi potrebbe
volere una certa cosa senza essere in grado di trasferire su se stesso le
conseguenze di tale scelta (p. es. la persona anoressica); senza contare,
infine, che il consenso compilato in base a schede-quesito, potrebbe risultare
in realtà ben poco “informato”.
La formula migliore – ha concluso
la Di Pietro - è quella dell’ “alleanza terapeutica”, dove medico e paziente
sono legati da un rapporto di fiducia e collaborano tra loro, e dove un ruolo
importante è dato dalla reciproca comunicazione. Spetta al buon medico riuscire
a trasmettere al paziente le informazioni che lo riguardano nella forma più
adeguata alla sua sensibilità e alle sue condizioni personali.
Nella realtà – come ha riferito
l’ Avv. Luca Nocco, della Scuola Superiore S. Anna , si è affermata, anche
nella costante giurisprudenza, una nozione “contrattualistica” del rapporto
medico-paziente, secondo cui il medico sarebbe sempre tenuto a fornire una
prestazione “migliorativa” della condizione del malato, nel caso inverso
restando a suo carico il gravoso onere di provare di aver fatto il possibile
per ottenere quel risultato. Nel caso in cui ciò non avvenga sempre più si
hanno iniziative giudiziarie attivate dal paziente insoddisfatto.
Per reazione, ciò ha dato origine
alla cosiddetta: “medicina difensiva”, in cui la responsabilità viene scaricata
da un soggetto ad un altro della catena.
Sarebbe opportuno – ha concluso
Nocco – che l’intero sistema si riformasse nel senso di garantire i cittadini
dagli effettivi casi di errore del personale medico-sanitario, però con
l’intervento diretto della struttura come esclusiva parte in causa, risolvendo
così le enormi difficoltà di accertamento delle responsabilità soggettive che
appesantiscono l’attuale contenzioso.
Il Mons. Marco Baleani, Direttore
del Seminario di Massa, ha esposto la posizione di H.T. Engelhaert, medico
bioeticista americano, uno dei massimi esponenti di un pensiero ormai diffuso
nel consesso scientifico, che dissocia il concetto di individuo da quello di
persona e dalla relativa tutela giuridica, da riservarsi solo a coloro che
agiscono “moralmente”, ovvero nella consapevolezza dei loro atti, negandosi,
così, il carattere di persona a una serie di soggetti (es. malati di Alzheimer,
ritardati mentali, embrioni o feti, stati vegetativi persistenti, ecc.) non in
grado di relazionarsi a tale livello. A tale prospettiva – ha detto Mons.
Baleani - è urgente contrapporre la visione personalistica e dualistica
dell’uomo quale essere ontologicamente dotato di intelligenza razionale (anima)
e di corporeità, in cui in nessun momento le due sostanze possono essere
scisse. Anche quando il corpo non è ancora (feto, neonato), o non è più (malato
di Alzheimer, stati vegetativi ecc.), in grado di manifestare verso l’esterno
la sua natura razionale e morale, l’individuo non perde mai la sua essenza e la
dignità di persona cui devono essere sempre assicurate la cura e la tutela
giuridica.
Nessun commento:
Posta un commento