LA VITA UMANA NON PUÓ ESSERE ARGOMENTO
DIVISIVO, di Lucio Romano*, http://www.scienzaevita.org/ Newsletter di Scienza & Vita n°52, del 21 Dicembre 2011
La Lectio Magistralis: bussola che delinea l’orizzonte di senso; guida secondo valori costitutivi dell’umano “per tutti intelligibili come
verità dell’esistenza”. Percorso
antropologico, teologico, filosofico che
dall’etica della vita e dai valori costitutivi della persona – “non conculcabili, né
parcellizzati o negoziati attraverso
mediazioni che, pur con buona intenzione, li negano” – favorisce un corretto
approdo all’etica sociale. Una
stringente e rigorosa argomentazione che
riconosce il ruolo ineludibile della ragione
che, se cancellata, indebolisce anche la fede. Sono affrontati complessi snodi della bioetica
e della biopolitica quali quelli della
conoscenza, della verità, della libertà
e dell’autodeterminazione, della partecipazione
dei cattolici alla civitas, e l’altrettanto sempre attuale tema dell’umanesimo e degli
umanesimi. Molteplici le riflessioni
che scaturiscono da un accorto studio
della Lectio Magistralis, così
le chiavi di
lettura che tutte, armonicamente,
si correlano in un virtuoso percorso
argomentativo da cui scaturisce per ognuno – nel privato e nel pubblico – la considerazione
che la vita umana non può essere
argomento divisivo. La questione che
emerge è prima di tutto antropologica e valoriale,
da cui le
ricadute in ambito
sociale. Le domande che ci interpellano possono essere rappresentate dalle seguenti: è riconoscibile
il valore della vita umana nella sua
nudità? La vita umana, “nei momenti di
massima fragilità e di più pericolosa esposizione”,
è un bene disponibile? La vulnerabilità, cifra dell’esistenza umana, deve essere
considerata nel sociale paradigma
inclusivo o esclusivo? L’articolata risposta che ci viene offerta invita a una presa diretta sulla realtà oggettiva
dell’essere umano, nella sua
irriducibile totalità, che altrimenti svanirebbe dall’orizzonte della conoscibilità qualora
volessimo riferirci “ad una realtà
unicamente costruita dal soggetto pensante,
[…] alle prese solo con le nostre opinioni individuali.” Si potrebbe dire: sospetto,
dubbio metodico e universale,
scetticismo, nichilismo di senso e di valori, immane svalutazione della vita, dittatura del
relativismo versus “la fiducia al mondo
e all’uomo”, “la conoscenza che parte da
un atto positivo, di fiducia e fa appello al senso comune, all’esperienza universale”,
cognitivismo etico, dignità intrinseca e
valore intangibile di ogni vita umana. Proprio dal conflitto - affatto celato - tra
non cognitivismo e cognitivismo etico,
si gioca il valore della via umana.
Nella visione non cognitivista la declinazione dei valori può avvenire solo nell’ambito della
soggettività individuale e sociale, in
nome della libertà individuale, senza che nulla esista di
oggettivo in grado di essere metro della
verità morale. Così per quanto attiene i
comportamenti. Consta a tutti rilevare il richiamo costante alla libertà e
all’autodeterminazione secondo cui già
il fatto che un atto sia conseguenza di una libera scelta qualifica l’agire come buono, vero, giusto. “A ben vedere, come qualunque agire
non si qualifica da sé ma è qualificato
da ciò verso cui tende […] così la
libertà, se per un verso è valore in se stesso in quanto è condizione di responsabilità, per
altro verso non è la sorgente della
bontà morale. La libertà è qualificata
dal contenuto che scelgo liberamente, e sta ad esso come il contenitore sta al suo
contenuto. Il fatto che un atto sia una
mia scelta non qualifica l’agire come buono,
vero, giusto. […] la libertà sciolta da vincoli e norme ma anche indipendente dalla verità di
ciò che sceglie […] si rivolta
contro l’uomo e
perde se stessa, diventa prigioniera di se stessa come ogni
personalità narcisista.” Si evince,
logicamente, che l’assolutizzazione della
libertà individuale è del tutto
oppositiva al riconoscimento e alla
realizzazione della persona nella comune-unione
sociale. Sono queste considerazioni di
sola pertinenza bioetica? Certamente no.
Sono anche questioni sociali e politiche. La democrazia, come concezione
politico-sociale e come ideale etico, si
fonda sul riconoscimento dei diritti inviolabili
di ognuno, indipendentemente da qualsiasi giudizio circa le sue condizioni esistenziali.
La titolarità dei diritti umani
dipende esclusivamente, pertanto, dall’esistenza in vita di ciascun individuo. E
la tutela della vita costituisce il
presidio del mutuo 10 riconoscimento degli esseri umani come eguali nei loro diritti. Possiamo dire, forse, che queste considerazioni configgono con la ragione? Non si tratta di
voler imporre valori impropriamente
classificabili come confessionali, piuttosto
si tratta di riconoscere i valori costitutivi dell’umano e che sono leggibili da tutti,
senza pregiudizi o ideologie per ciò
stesso fuorvianti. Il portato culturale della vulnerabilità è chiaramente rappresentato dalla Dichiarazione di
Barcellona del 1998 che auspica il
passaggio dalla rivendicazione dei diritti
contrattuali alla rivendicazione di diritti protettivi. E individua nel paradigma della
vulnerabilità “un ponte tra stranieri
morali in una società pluralistica” così
che “il rispetto per la vulnerabilità dovrebbe essere fondamentale nelle scelte politiche in un
modello di moderno welfare state”. Riconoscere che la vulnerabilità è condizione
sostanziale dell’essere umano, in tutte
le sue fasi di sviluppo dal concepimento
alla morte naturale, richiama l’etica della responsabilità. La responsabilità ci
interpella per intersoggettività
(essere con gli altri) e ancor più per reciprocità (essere per gli altri). Obbliga ad assumere impegni che consentano di trattare ogni essere
umano, indipendentemente dalle
condizioni esistenziali, da eguale e non
egualmente; richiede una presa in carico dell’altro, consapevoli della doverosità soprattutto nei confronti di soggetti deboli o in situazioni
di particolare fragilità. E’ l’esistere
stesso che fonda l’assunzione della responsabilità
verso l’altro, in reciprocità. Una responsabilità
che non si richiami a valori razionalmente
riconoscibili da tutti, pertanto irriducibili e non negoziabili, sarebbe un vuoto esercizio
ridotto a procedure contrattualizzate.
Quale il rischio, pertanto, per la
democrazia, l’equità, la giustizia? Il prevale del più forte sul più fragile: vulnerabilità fattore
di discrimine. L’estrema fragilità
dell’altro non giustifica in alcun modo
l’oppressione del più forte sul più debole, la soppressione diretta o occulta, né ostinazioni
o accanimenti. Ricorda il bioeticista
W.T. Reich: “la vulnerabilità stabilisce
una relazione asimmetrica tra il debole e il potente, nel senso che richiede
l’impegno morale del più forte a
proteggere il debole al di là di ogni condizione”.
Su
questo tema si
rileva il fondamento
dell’esistere umano e della
democrazia.
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