ITALO SVEVO/ Magris: rideremo
anche noi come il vecchio Zeno di fronte a Mefistofele? - INT. Claudio Magris, lunedì
19 dicembre 2011, http://www.ilsussidiario.net
«È stato uno dei più grandi
scrittori dell’ultimo secolo, e la sua grandezza è una scoperta che non è
ancora compiuta. Per molti versi più grande di Joyce», dice di Italo Svevo
(Trieste, 19 dicembre 1861) Claudio Magris, triestino come Svevo, scrittore,
germanista, profondo conoscitore della cultura mitteleuropea. Ilsussidiario.net
ha raggiunto Magris per parlare di un dei massimo esponenti della nostra
letteratura, non uno scrittore di professione, non un intellettuale: «un
borghese normale, come tutti gli altri, che aveva soltanto questo di diverso:
il genio», dice Magris, e che ha segnato un punto di svolta nella nostra
letteratura. Difficile fermare il professore, quando parla di Svevo. È stato
lui a condurre la conversazione, alla quale si è prestato più che volentieri.
«Svevo, nonostante sia divenuto un classico, non è stato paradossalmente ancora
scoperto nella sua straordinaria grandezza, una grandezza di cui lui stesso non
era consapevole».
Chi era Ettore Schmitz,
professore?
Un buon borghese triestino, un
padre di famiglia normale. Non un intellettuale. Una persona in tutto normale,
ma con una cosa in più: il genio. Italo Svevo è stato capace come pochissimi
altri di fissare lo sguardo nella vertigine dell’identità individuale e nella
molteplicità della vita, di scorgere in essa il vuoto dell’esistenza. Svevo è
colui che è riuscito a guardare in faccia la Medusa e poi, in qualche modo, a
fare finta di non averla vista; a chiudere le porte aperte sull’abisso
vertiginoso della condizione dell’uomo, talora perfino dimenticandosi di averle
aperte.
Qual è l’abisso dell’esistenza
intravisto da questo «borghese normale»?
Ha capito più di tutti i suoi
contemporanei come il grande pericolo che minaccia l’uomo moderno – e
contemporaneo – non è tanto il non essere amato, il non raggiungere la
felicità, ma qualcosa di ben peggiore: non amare, non desiderare.
Svevo è forse il suo autore
prediletto. Qual è il tratto che più colpisce in lui?
Credo che sia molto interessante
notare, innanzitutto, la compresenza di facilità e difficoltà. Svevo è molto
più difficile di Joyce; naturalmente Joyce è più difficile dal punto di vista
linguistico, però... chiediamoci, perché amiamo tanto l’Ulisse? Ma perché ci
dice quello che ci aspettiamo e che vogliamo sentire: l’ignoranza di Molly
Bloom sulla metempsicosi è esattamente ciò che ci aspettiamo da lei, e gli
esempi si potrebbero moltiplicare a non finire. Quando invece Svevo parla della
sigaretta di Zeno (Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno, ndr) e
della sua volontà di smettere di fumare, noi per un attimo dimentichiamo che
sta parlando di questo io che impovvisamente scopre di essere una moltitudine,
di questa radicale trasformazione del soggetto che non è più l’io compatto
della borghesia ottocentesca, di questo io che non sa chi sia; seguiamo Zeno
nella sua vertigine senza punti fermi... L’«inettitudine» – Un inetto era il
titolo che Svevo diede al suo primo romanzo, Una vita – è il disagio
invincibile di una civiltà che Svevo ha vissuto a fondo come pochi altri e che
egli riesce a trasformare in una specie di rifugio, di cura quasi omeopatica...
Si spieghi, professore.
Perché la vecchiaia ha un così
grande ruolo nell’opera di Svevo? Perché il vecchio non ha più alcun bisogno di
vincere, di avere successo con le donne, di avere successo nel lavoro: è
autorizzato alla propria emarginazione e alla propria sconfitta. Ha la
capacità, se vogliamo anche cinica, di guardare in faccia la vita senza averne
più paura, proprio perché è fuori dal gioco. C’è una bellissimo frammento di
Svevo, forse l’ultimo, scritto nell’abbozzo di ciò che avrebbe dovuto
probabilmente costituire un quarto romanzo, tre pagine splendide che non posso
rendere se non con un goffo riassunto. È una scena direi cinematografica alla
Chaplin – o alla Buster Keaton. Vediamo un vecchio – il quale è poi il vecchio
Zeno – a mezzanotte, spogliarsi per coricarsi al fianco di una moglie anziana,
che già dorme russando. Ecco, questa è l’ora in cui potrebbe venire Mefistofele
– pensa il vecchio – e propormi l’antico patto... Gli darei subito la mia
anima, ma per che cosa, poi? Per l’immortalità? No, è terribile l’immortalità,
ma anche la morte è spaventosa. Per la giovinezza? No, la giovinezza è così
triste, piena di malinconia, di delusioni... E allora il vecchio capisce che
non avrebbe nulla da chiedere. E immagina Mefistofele, imbarazzato, grattarsi
perplesso la barba – un Mefistofele rappresentante di commercio di una ditta i
cui prodotti non sono più tanto richiesti. All’idea il vecchio, coricandosi,
ride forte – e penso davvero che questo sia il riso più nietzscheano della
letteratura –. Ride e sveglia la moglie la quale gli dice «Ridi sempre tu,
anche a quest’ora. Beato te» e subito si riaddormenta, ricominciando a russare.
Credo sia una delle spiagge letterarie più estreme del nichilismo occidentale.
C’è in Svevo una apertura
metafisica?
Io credo che in Svevo ci sia la
percezione terribilmente malinconica, che non c’è altro e oltre il nostro
mondo; al tempo stesso, c’è il senso fortissimo che questo nostro mondo anche
se è così esistente, non basta. Non credo ci sia la virtù cristiana della
speranza – che prima di essere cristiana è ebraica e Svevo, non
dimentichiamolo, viene dalla civiltà e dalla cultura ebraica –, la speranza che
Péguy considerava la più grande delle virtù; c’è però la consapevolezza di come
sia duro e tremendo esserne privi. Ma Svevo non fa nemmeno il sincero retore di
questa malinconia. Non declama la disperzione, come altri autori hanno fatto.
La scrittura letteraria di oggi
può – o dovrebbe, secondo lei – andare nella direzione intrapresa da Italo
Svevo? Sarebbe, prima di tutto, in grado di farlo?
Troppe domande in una. Io non
credo che ci siano obblighi perché ogni autore, anche il più modesto, ha il
dovere di seguire la sua strada, che potrà portarlo ad essere come Svevo oppure
un povero diavolo come noi. Credo invece, questo sì, che il mondo sveviano non
sia stato ancora analizzato a fondo; e non parlo della ricchissima critica
lettaria a lui dedicata, ma del mondo esistenziale che si identifica con la sua
opera. Penso che Svevo abbia ancora moltissimo da dire come avventura
odissiaca, e come rappresentazione poetica di tale avventura ulissiaca, perché
in fondo Zeno è un Ulisse contemporaneo. E ci offre anche una chiave di quello
antico: l’Ulisse di Omero ha capito che la vita è anche morte e dunque ascolta
il canto, ma si fa legare. Non vuole correre rischi: è già il borghese che fa
l’assicurazione casco. Però Svevo si è reso conto di quanto questo sia
tremendo, perché quando non si rischia si finisce per non avere: come per Zeno
e Ada, se uno che si innamora non rischia, vede alla fine svanire anche
l’amore.
(Federico Ferraù)
© Riproduzione riservata.
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