La bimba cerebrolesa che ha “dato vita” all’ospedale di Livorno, 8
maggio 2012, Benedetta Frigerio
La giornata della piccola
cerebropatica curata dalle infermiere: «Finché non abbiamo iniziato ad
accudirla, pensavamo che, in casi come il suo, fosse meglio morire. Ora abbiamo
cambiato idea».
La piccola cerebropatica che non parla e si
nutre con il sondino, adottata dal reparto di pediatria dell’ospedale di
Livorno due anni e mezzo fa, continua a parlare. Questa volta lo fa tramite la
voce delle infermiere che la assistono. Simona è la più affezionata alla bimba,
come spiega a tempi.it: «È come la mia seconda figlia. Lo dico davvero, se
andasse via sarebbe come lasciare una parte di me. Per il suo bene desidero che
sia adottata, ma mi mancherebbe». Simona, infatti, oltre che negli orari di
lavoro sta con la piccola appena può. E in ospedale porta anche la figlia
naturale. Due anni e mezzo fa non l’avrebbe mai fatto né detto. «Se me lo
avessero chiesto? Avrei dato della matta a una madre che porta sua figlia
davanti a tanta sofferenza». Ora invece la bambina è diventata amica dei figli
di tutto il personale. Come mai? «Innazitutto non c’è solo dolore: vedere la
forza di questa guerriera che lotta per vivere e che cerca il nostro affetto
insegna a chi la assiste a rendersi conto di quanto ha. Delle piccole cose. Mia
figlia, poi, la porto qui perché passi del tempo con quella che considera sua
sorella e si accorga di quanto siamo fortunati. Ma sopratutto di quanto si
possa essere felici con poco». Felici? In stato vegetativo? «La piccola è
contenta della sola presenza nostra, delle minime attenzioni, delle nostre
carezze. Questo insegna a me e a mia figlia a vivere: vale la pena lottare per
la vita come fa lei. Ora non assecondo più i capricci. Anzi quando li fa le
ricordo la sua “sorellina” e lei capisce».
La sofferenza degli innocenti fa
ribellare. Molti per questo arrivano a dire che è meglio la morte. «Sono
onesta, due anni e mezzo fa lo pensavo anche io. Mi dicevo: se una persona non
parla, se è costretta a letto, se si nutre con il sondino è condannata a una
sofferenza senza senso. Mi sbagliavo perché mancava qualcosa». Non c’è evidenza
scientifica, dicono alcuni. «Purtroppo le macchine non possono misurare cose
come l’amore e la felicità: possono dire quello che vogliono, che una vita in
questo caso non abbia un significato, ma ora non ci casco più. Sotto i miei
occhi c’è altro». Ed è qualcosa di così evidente che tutto il reparto ora la
pensa come Simona. «È così. Noi passiamo con lei ventiquattro ore su
ventiquattro. Non c’è spiegazione scientifica che possa negare quello che
vediamo: la bimba sente il contatto, sente se ci siamo, patisce se ha bisogno,
gioisce del nostro affetto. Si accorge di come viene accarezzata, di come le si
sussurra nell’orecchio. Sente che noi la amiamo». Un bel mistero questa
piccola. «Un mistero che ci insegna tanto. Ci insegna che tutto quello che c’è,
se c’è, è perché ci deve essere. Ci insegna l’amore che comunica».
Ad esempio, spiega Rossella,
un’altra infermiera che si definisce “la zia”, «la bimba ci unisce nel curarla,
facendoci capire che se anche non possiamo guarirla vale la pena comunque dare
tutto per assisterla». Anche quando nulla può cambiare dal punto di vista
clinico: «È una vita che chiede amore e che ne genera anche di più». E si vede.
«Appena uno di noi arriva in reparto chiede di lei ai colleghi del turno
precedente: come è andata la notte? Come è stata oggi? E poi si passa in
cameretta». Impressiona pensare che fermi in un letto si possa fare tanto: «Per
questo le saremo tutti grati. Per sempre».
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