RAGIONE & FEDE/ Perchè la bellezza delle cose non ci dice più nulla?
Di Costantino Esposito, mercoledì 9 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Che cosa ci fa conoscere la
bellezza? La domanda può essere intesa in due modi diversi ma complementari:
essa si riferisce in primo luogo a quelle condizioni dell’esperienza che ci
permettono di giudicare qualcosa come “bella”, e più in generale ci fanno conoscere
la realtà della bellezza. Ma in secondo luogo quella domanda si riferisce a ciò
che la bellezza stessa ci permette di conoscere, o meglio quella specifica
conoscenza della realtà – di noi stessi e del mondo – che acquisiamo grazie
alla bellezza.
Tutto il problema della bellezza
nella nostra epoca può essere sintetizzato nel fatto che i due sensi di questa
domanda sembrano essere ormai definitivamente divaricati l’uno rispetto
all’altro. Di modo che nell’esperienza soggettiva del bello (in quello che da
Kant in poi chiamiamo il “gusto” del bello) si indebolisce, fino a perdersi,
ogni pretesa di conoscenza; e a sua volta la conoscenza “oggettiva” delle cose
si identifica progressivamente con la loro misurabilità e la loro
costruibilità. Per questo vale la pena riaprire una questione che sembrerebbe
essere già stata risolta e archiviata, vale a dire: qual è la dimensione
conoscitiva del bello? Ci permette esso di allargare la nostra conoscenza del
mondo e di noi stessi o dev’essere confinata all’interno di un sentimento
soggettivo?
La risposta più diffusa a tale
questione nell’epoca contemporanea è che la bellezza è segnata da una radicale
impossibilità conoscitiva. E questo avviene proprio nel momento in cui si
afferma definitivamente una tendenza tipica del pensiero moderno, secondo la
quale il bello non può più essere pensato come una caratteristica dell’essere
(quindi in rapporto con la verità), bensì come una rappresentazione tutta
interna al soggetto umano. Questa rappresentazione sta alla base dell’“estetica”.
È significativo che l’inventore
di questa disciplina, Alexander G. Baumgarten, nel 1750 scrivesse che «la
bellezza della conoscenza» è «un effetto prodotto da colui che pensa in modo
bello, né più grande né più nobile delle forze vive di cui quest’ultimo
dispone». Un principio che Kant riprenderà nella Critica del giudizio (1790),
determinando il canone di tutta l’estetica successiva: «Per distinguere se una
cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante
l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse
congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di
piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di
conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo principio
di determinazione non può essere se non soggettivo», sebbene non in senso
arbitrario o relativistico, ma universale.
La controprova di questo sta nel
fatto che per Kant quando affermiamo che qualcosa è bello non ci interessa
affatto l’esistenza dell’oggetto che giudichiamo bello, ma solo il sentimento
di piacere prodotto in noi dal gioco armonico tra le facoltà della nostra mente
(sensibilità, immaginazione, intelletto). Nell’esperienza della bellezza non è
la ragione che si apre ad accogliere l’attrattiva dell’essere o il fascino del
mondo (questo per Kant sarebbe solo “piacevole”, non “bello”); piuttosto è il
piacere dell’oggetto che viene prodotto a priori da un giudizio universale
della ragione.
Resta, è vero, in Kant e
soprattutto nella cultura romantica, un rapporto privilegiato del bello con il
bene (pensiamo all’enfasi posta da Friedrich Schiller sull’estetica come
educazione alla libertà), ma anche in questo caso il bene cui la bellezza
conduce costituisce un puro ideale, un dover-essere che per sua natura eccede
il piano dell’esistente, e anzi trova tutta la sua forza e la sua suggestione
nel prospettare – con l’immaginazione e
la fantasia – ciò che la ragione non sarebbe mai capace di cogliere con i
concetti.
La “possibilità” estetica della
bellezza viene sempre più a coincidere con la sua “impossibilità” reale o
oggettiva. Non a caso Hegel (nelle sue Lezioni di estetica), proprio nel
momento in cui afferma che la bellezza artistica supera di gran lunga quella naturale,
poiché è una «bellezza generata e rigenerata dallo spirito», sostiene che
l’arte stessa è destinata alla “morte” perché il suo contenuto spirituale
deborderà sempre di più dagli schemi della sua rappresentazione sensibile.
Nello spazio aperto da questa
morte o impossibilità, è stato Theodor W. Adorno, nella sua Teoria estetica
(1970), a rendere nella maniera più chiara e direi più struggente la
separazione inevitabile dell’esperienza estetica dalla realtà esistente di
fatto. Quest’ultima è sempre “schiacciata” sotto il peso della sua identità,
cioè essa “è quello che è” e non può che essere così. L’“estetico” invece
costituisce un’antitesi rispetto all’esistente, una presa di distanza rispetto
al principio di realtà. In ogni vera opera d’arte diviene così possibile un
non-esistente, una realtà non-effettiva, come una promessa che, di fatto, non
si potrà mai compiere. In tal modo l’arte, nel suo apparire di bellezza e di
forma, promette e insieme tradisce, e l’apparenza stessa non vale più come traccia
di un possibile, ma come consapevole illusione o mero inganno, appunto perché
ciò a cui ci rimanda è impossibile.
Certo, nell’estetica novecentesca
possiamo rintracciare anche dei tentativi di ridare uno spessore “ontologico” o
di “verità” all’esperienza del bello, come ad esempio nell’ermeneutica di
Hans-Georg Gadamer. Ma proprio parlando della verità estetica, egli conferma
clamorosamente che la bellezza non ci fa conoscere niente della realtà stessa;
o meglio: ci fa conoscere la realtà solo in quanto essa è una produzione
culturale all’interno di un canone linguistico condiviso da un’umanità storica
(cfr. L’attualità del bello, 1977). Il bello non è solo qualcosa che,
evidentemente, si offre alla nostra interpretazione, ma è qualcosa il cui
essere consiste appunto nell’essere-interpretato, e cioè in definitiva
nell’essere un prodotto ermeneutico.
Se Gadamer ha dato voce alla
tradizione continentale, Nelson Goodman ha invece espresso in maniera
paradigmatica l’approccio al problema dal punto di vista della tradizione
analitica americana. Egli afferma con decisione che l’arte, e quindi la
percezione estetica, possiede senz’altro un valore conoscitivo, o meglio essa è
un’«attività cognitiva» al pari della scienza, ma proprio perché da parte sua
la conoscenza – estetica o scientifica che sia – considera la realtà come un
prodotto del linguaggio o meglio, dei diversi sistemi simbolici con cui
percepiamo, e quindi “facciamo” il mondo (worldview come worldmaking). Per
questo Goodman afferma: «Che la natura imiti l’arte [come avrebbero detto Hegel
e Gadamer] è una massima troppo prudente. La natura è un prodotto dell’arte e
del discorso» (I linguaggi dell’arte, 1976).
Di fronte a questa ambigua
condizione della bellezza, divisa tra un’impossibilità a “realizzarsi” (cioè ad
essere “reale”) e una realizzazione prodotta dalle possibilità
storico-linguistiche dell’interpretazione, nasce l’idea che forse essa ha
bisogno di essere “liberata” paradossalmente da questa sua condizione di
ostaggio dell’estetica, per poter tornare a mostrarsi e a parlarci nella sua
propria lingua. Forse varrebbe la pena ipotizzare che la bellezza non debba
essere compresa innanzitutto a partire dal “gusto” soggettivo o dalla creazione
spirituale o dalla interpretazione culturale, bensì a partire dalla stessa
percezione che noi abbiamo della realtà.
C’è una testimonianza che ha
segnato – tra le altre – in maniera per me decisiva la storia di questo
problema. È quella offertaci da Agostino d’Ippona nel X libro delle sue
Confessioni (397-400), lì dove egli descrive il modo in cui il nostro «io
interiore» (ego interior) giunge a conoscere il significato ultimo della realtà
con l’aiuto del nostro «io esteriore» (per exterioris ministerium), o più
precisamente, il modo in cui il mio “animo” conosce il dono dell’essere per
mezzo dei sensi del corpo (Conf. X, 6.9). Ma il contesto di questa descrizione
è particolarmente significativo: Agostino vuol sapere chi è il suo Dio, vale a
dire dove può localizzare quel significato che si è rivelato a lui come una presenza
amorosa attraverso gli incontri, gli avvenimenti, i drammi stessi della sua
vita. E comincia con l’interrogare le cose fuori di lui: il cielo, la terra, il
mare e tutto ciò che incontra nell’universo.
Con le mie domande – scrive
Agostino – porto il mio sguardo sulle cose (interrogatio mea, intentio mea), e
le cose da parte loro mi rispondono attraverso la loro forma di bellezza (et
responsio eorum, species eorum: Conf. X, 6.9). E tutte – proprio in quanto
appaiono come belle – gli rispondono: non siamo noi quello che cerchi, «non
siamo noi il tuo Dio», perché siamo state fatte.
Il problema che si pone a questo
punto è: come ci parla la bellezza delle cose? E perché la risposta che essa dà
alla nostra interrogazione non è intesa da tutti? Infatti, se da un lato la
bellezza appare a tutti gli esseri dotati di sensi, dall’altro lato essa non
parla a tutti nella stessa maniera. Gli animali per esempio la vedono, sì, ma
non la capiscono, poiché essi «sono incapaci di fare domande», e non possiedono
quella «ragione giudicante» (iudex ratio) che serve a decifrare e valutare i
messaggi che arrivano dai sensi. Gli uomini, invece, proprio in quanto «sono
capaci di fare domande» (interrogare possunt), possono scorgere il Dio
invisibile attraverso il creato visibile (Conf. X, 6.10).
Le cose dunque «rispondono
soltanto a chi le interroga sapendo giudicare»; la loro voce, cioè la loro
bellezza non cambia, ma si presenta in modo diverso a chi la vede soltanto e a
chi invece la vede e insieme l’interroga. Così, «pur presentandosi a entrambi
sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio,
parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta
dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono» (sed illi
intellegunt, qui eius vocem acceptam foris intus cum veritate conferunt).
La bellezza è percepita veramente
in un’esperienza di dialogo e di corrispondenza tra l’io e la realtà, tra
l’interno e l’esterno, tra ciò che è percepito sensibilmente e il suo senso
percepito razionalmente. Nell’invito che la bellezza rivolge al nostro io,
grazie alla voce che ci chiama attraverso il fascino della forma (species),
l’io è letteralmente “mosso” ad essere se stesso. Esso esisteva, certo, come
possibilità di esercitare una funzione percettiva, ma ora, ascoltando
quell’invito e chiedendo il “perché” di quella voce, il nostro io è “preso” o
“afferrato” dalla realtà: e così esso può emergere, può venir fuori nella sua
piena soggettività.
Per Agostino la bellezza delle
cose non si identifica con il mero aspetto estetico, ma con l’ordine, l’armonia
e la ragione profonda per cui esse esistono. Per questo, proprio in quanto
giudicata “bella”, la realtà si manifesta nel suo significato; e viceversa il
significato vero delle cose o si manifesta attraverso la sua bellezza oppure
non è.
La bellezza denota così la
scoperta dell’invisibile attraverso il visibile, ma non come un’aggiunta o un
mero “al di là” rispetto a quello che vediamo sensibilmente, bensì come la
condizione stessa della possibilità del visibile. Noi vediamo sensibilmente le
cose attorno a noi, ma non ne vediamo alla stessa maniera il senso. Eppure, se
non percepissimo il senso di quelle cose probabilmente non le vedremmo neanche,
o meglio, le “guarderemmo”, sì, senza però “vederle” realmente.
L’articolo presentato è uno
stralcio della relazione dal titolo “Che cosa ci fa conoscere la bellezza”, che
l’autore ha tenuto durante il Convegno internazionale sul tema “Il destino
della bellezza – La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche”
organizzato dal 17 al 19 aprile 2012 a Mosca dall’Università San Tichon insieme
all’Università Cattolica di Milano, con la collaborazione dell’Istituto
Italiano di Cultura di Mosca.
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