Avvenire.it, 6
settembre 2011 - Il compito educativo, l'insidia del relativismo - Verità e
progetto per fare spazio a «qualcuno», Giacomo Samek Lodovici
Nell’imminenza dell’avvio del nuovo anno scolastico, un
recente e prezioso discorso del cardinal Caffarra agli insegnanti offre alcune
coordinate decisive per restituire ai docenti, soffocati dalla burocrazia,
sottopagati e (a volte) anche annoiati dalla routine, la consapevolezza «di una
dignità e di una missione che hanno e che nessuno può e deve loro togliere». È
un tema che sta molto a cuore ai vescovi italiani, che in varie occasioni hanno
speso parole profonde.
Insegnare – ha ricordato l’arcivescovo di Bologna – non vuol
dire solo trasmettere nozioni e tecniche, che pur sono importanti, bensì
«equipaggiare una persona di tutto ciò che serve per vivere una vita buona e
felice e per convivere»: vuol dire educare. E ciò significa aiutare le famiglie
(che oggi ne hanno tremendamente bisogno) a «trasmettere un progetto di vita,
ritenuto veramente buono», nonché prodigarsi affinché l’allievo «diventi anche
qualcuno». Educare significa non già conculcare, bensì proporre (anche in
riferimento ai valori fondativi del nostro popolo) un modo di vivere in cui la
dignità umana risplenda e fruttifichi.
Chiaramente una simile concezione dell’insegnante-educatore
si scontra con il relativismo, con lo scetticismo, con la negazione assoluta
della conoscibilità della verità. Bisogna allora promuovere nell’allievo
l’amore verso la verità e verso il bene, e prima ancora la fiducia nella
capacità veritativa della ragione, per esempio ripercorrendo con lui quegli
argomenti che (da Platone in poi) hanno riconfermato la capacità umana di
conoscere (almeno in parte) la verità e di intraprendere la ricerca di un
progetto di vita veramente buona, che indichi l’autorealizzazione della
persona, conforme a ciascuno.
Dicevamo che non si deve "conculcare" nulla:
bisogna piuttosto mostrare in modo maieutico lo splendore della verità e del
bene. È irrinunciabile promuovere lo sviluppo del senso critico dell’allievo,
in modo che egli possa analizzare quanto ascolta, per fare propri i concetti e
i principi che apprende o, se del caso, per rifiutarli, compresi quelli del
docente. Bisogna promuovere il senso critico perché questo consente di accedere
alla verità, la quale è la condizione di possibilità per essere liberi.
Infatti, dice Caffarra, il docente che non indica un ideale
di vita, una terra promessa da raggiungere, abbandona la persona che gli viene
affidata «in una sorta di "terra di nessuno" (le leggi bronzee
dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido)»: di
fatto lascia l’allievo in balia di pulsioni che potrebbero squassarlo e di
forze – i mass media, le lobby, i potentati finanziari, ecc. – che vogliono
ghermire e manovrare il suo io.
Una tale missione dell’educatore richiede non solo
competenza, onestà ed equilibro, ma anche testimonianza, coerenza tra il bene
che si addita e la vita che si conduce. Essa è tanto più efficace «se il
"qualcuno"» che si propone di diventare all’allievo «è incarnato, ha
preso corpo nell’educatore e in modo affascinante». In effetti, la grande
tradizione occidentale, ma anche orientale, della virtù da sempre rimarca come
imprescindibile l’esistenza di "testimonial" che irraggino la
bellezza della vita buona.
Alla base di tutto – come ha detto Caffarra – il docente deve
amare l’allievo. Amare non vuol dire provare simpatia (che nei riguardi di
certi studenti è molta ardua), né essere indulgenti, bensì desiderare e cercare
il vero bene altrui: «L’amore fa guardare l’altro come unico […]: l’educazione,
come diceva don Bosco, è un affare del cuore». In sintesi, «l’educatore ha la responsabilità
della nascita di un io veramente libero e liberamente vero, della custodia
della verità circa il bene della persona, della testimonianza alla verità circa
il bene dell’uomo».
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