Avvenire.it, 17 ottobre 2011, La nuova evangelizzazione secondo
Benedetto XVI - Lo stesso annuncio, la stessa meraviglia ma in un mondo
completamente diverso di Marina Corradi
«Il mondo oggi ha bisogno di
persone che parlino a Dio, per poter parlare di Dio». Il discorso di Benedetto
XVI all’assemblea convocata dal Pontificio Consiglio per la nuova
evangelizzazione si potrebbe condensare in queste poche limpide parole. Davanti
a migliaia di fedeli disposti a spendere se stessi per annunciare Cristo nelle
società secolarizzate, il Papa è stato essenziale. Come sapendo che
quell’espressione, "nuova evangelizzazione", coniata già da Giovanni
Paolo II a fronte del distacco dalla fede dell’Occidente, può non essere di
immediata comprensione.
Perché se è una evidenza come la
mentalità comune negli ultimi quarant’anni sia stata sovvertita da una
modernizzazione che ha cancellato molto di memoria e tradizione cristiana, non
pochi si chiedono come dovrà mai essere, questa "nuova"
evangelizzazione. Perché d’accordo, il mondo oggi parla altri idiomi e insegue
spesso altri dei, e quindi forse occorrono parole inedite per l’eterna buona
novella; ma concretamente, ci si chiede, da dove si ricomincia per portare oggi
Cristo agli uomini? Con semplicità, allora, anche ieri Benedetto XVI è tornato
sul passaggio essenziale del suo motu proprio di un anno fa: per annunciare in
modo fecondo il Vangelo, scrisse, occorre anzitutto «che si faccia profonda esperienza
di Dio». Perché il cristianesimo non è una decisione etica, aggiungeva con le
parole della Deus caritas est «ma l’incontro con un avvenimento, con una
Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte».
Si ricomincia dunque, ancora e
sempre anche se dentro a cambiamenti culturali tanto profondi da sembrare una
mutazione antropologica, da Cristo. Solo uomini che di Cristo facciano
esperienza, gli parlino, magari ci si scontrino, così come Giacobbe lottò con
Dio in un drammatico misterioso corpo a corpo, possono poi annunciare agli
altri ed essere ascoltati, in quel contagio che si fonda sulla testimonianza
incarnata, sulla faccia di un padre, o di un amico.
Ma, si potrebbe obiettare, e la
televisione con la sua opaca catechesi, e il web, e l’onda omologante delle
mode? Cosa può la testimonianza del singolo di fronte a un simile spiegamento
di forze? La forza di quella Parola, risponde il Papa, non dipende anzitutto
dalla nostra azione, dal nostro «fare», ma da Dio: un Dio che ama «nascondere
la sua potenza sotto i segni della debolezza». La debolezza della capanna di
Betlemme, e della Croce. Tutta un’altra logica da chi ragiona in termini di
consenso e di audience, di masse convinte a comprare, scegliere, amare,
conformandosi allo spirito del tempo. Benedetto XVI ci ricorda che nelle nostre
città disorientate, nelle famiglie affaticate, a noi dimentichi o distratti,
Dio parla ancora; e occorre credere, ancora, all’umile potenza della sua
parola, cui basta, per diffondersi, la faccia di un uomo semplice; se, però,
con quel Dio parla, e poi tacendo lo resta a ascoltare.
Che c’è di nuovo, allora? Non
l’annuncio, ma il terreno è cambiato; come ha detto monsignor Fisichella, non
si può più dare per scontato in Occidente che il linguaggio della fede sia
compreso come una volta, ripetendo le medesime parole, perché non è più così.
Di certo, anche coloro che annunciarono il cristianesimo ai confini dell’Impero
romano cadente trovarono nuovi idiomi, nuove "forme" per la medesima
sostanza. E però tutto allora e oggi ricomincia, dice il Papa, da Dio, e da
uomini suoi amici. Nel cui sguardo una diversità genera meraviglia. «Possiamo
ancora affermare con certezza, come agli inizi del cristianesimo, che la parola
di Dio continua a crescere e a diffondersi». Lo affermeremmo, noi? Lo ha detto
il Papa, ieri, con quella lieta quasi sfrontata audacia di cui è capace chi ha
fede. E non si preoccupa di quante siano le divisioni avversarie, e quanto
forti: confidando in Dio come una casa che ha le fondamenta nella roccia, e non
teme il vento, né il sussultare delle faglie, nel buio.
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