Che cosa ci Insegnano i bambini disabili - L’handicap infantile, le
nostre emozioni di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI dal Corriere della Sera del 3
ottobre 2011
Ci sono storie che vanno a
toccare i nervi scoperti di una società, la nostra, all’apparenza così sicura
di sé. In questo caso storie, tra loro opposte, di bambine down: una esclusa
dalla fotografia di classe in una cittadina della Basilicata, l’altra invece
fotografata e mostrata per amore dalla propria madre americana. Storie di
handicap infantile. Ed ecco che la Rete si infiamma, s’indigna, soffre e
gioisce. La discussione comincia con due articoli sul Corriere, di venerdì e
sabato, poi continua con un intervento sul blog La 27esimaora. Ma presto
tracima, moltiplicandosi, su altri forum.
Il tema del dibattito è, appunto,
l’handicap infantile, in particolare la sindrome di Down. Hanno scritto padri e
madri, zii, fratelli, parenti, vicini di casa, narrando la vita con un bambino
Down. Vita non facile, vita spesso faticosa. Ansie e angosce, riguardanti, sì,
il presente, è cioè l’organizzazione quotidiana, la custodia e la salute,
sovente malferma, dei piccoli «diversamente abili», nonché le reazioni non
sempre garbatissime degli altri, però riguardanti assai di più il futuro
lontano. Ansie e angosce che fanno porre ai genitori sempre la stessa,
irrisolta domanda: «Cosa sarà di lui quando noi non ci saremo più?».
Ma altrettanta gioia esce dai
messaggi, altrettanta fiduciosa accettazione di quel bambino in qualche modo
speciale e diverso, altrettante testimonianze di una vita non più immaginabile
senza di lui, una vita che sarebbe stata infinitamente più triste senza di lui.
È l’amore che induce a scrivere certe frasi, che si ostina a dipingere di rosa
situazioni che, viste da fuori, da lontano, difficilmente sembrano davvero così
rosa? Ovvio che è l’amore, miracoloso, ostinato e pieno di energia,
fortunatamente mai del tutto oggettivo, capace non soltanto di fare sognare ma
anche di risolvere i problemi e le esistenze. È l’amore che a molti genitori di
figli handicappati, anche gravissimi, ha fatto dire: «Meglio un figlio così che
niente figli del tutto».
Tra l’altro, chi ha avuto un poco
a che fare con l’handicap infantile, sa bene che la sindrome di Down è uno dei
meno pesanti, che ha diversi gradi di gravità e che attenzione assidua,
formazione e istruzione possono incidere molto sulle capacità di apprendimento
e, dunque, sulla qualità della vita dei bambini e poi dei ragazzi Down peraltro
notoriamente molto affettuosi e mai aggressivi. Ed è forse proprio questa la
risposta che si dovrebbe dare ai non pochi lettori che ai forum del Corriere
hanno scritto cose assai diverse: per esempio — la più dura di tutte — che chi
mette al mondo, pur sapendolo in anticipo grazie alle indagini prenatali, un
piccolo Down fa un torto grave alla collettività perché appesantisce in modo
irresponsabile la spesa sanitaria. A parte il fatto che lo stesso rimprovero si
potrebbe fare a chi mette volontariamente a rischio la propria salute
ostinandosi a fumare o, anche, eventualmente, comprandosi una motocicletta
superveloce, l’aborto «obbligatorio» nel caso che il bambino si preannunciasse
Down non può non far pensare a programmi eugenetici di tragica memoria; oppure
ad abbastanza tragiche notizie del giorno che ci informano di manager di
cliniche private, nonché medici, sorpresi a rifiutare ai malati costose
medicine anticancro perché, tanto, «quelli devono morire».
Il vero e più grave torto che si
possa fare alla collettività sarebbe proprio quello di obbligare, sia pure
soltanto moralmente, due genitori a liberarsi prima della nascita di un figlio
Down, per pura questione economica: negando non soltanto comprensione o
compassione ma anche quel grado minimo di solidarietà fatto di tasse pagate per
sostenere il prossimo — non viene in mente altro termine più adatto di quello
cristiano — colpito da qualche disgrazia o malattia, davvero si negherebbe
l’esistenza stessa della comunità, la si vuoterebbe di senso, lasciando
avanzare ancora di più il deserto.
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