Il male esiste anche a Oslo di Giacomo Samek Lodovici, 01-12-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Anders Behring Breivik, l’autore
degli enormi massacri di Oslo e Utoya che il 22 luglio ha ucciso 77 persone,
ferito altre 151 e sconvolto un intero paese è stato considerato incapace di
intendere e di volere da una perizia psichiatrica. Molto probabilmente eviterà
il carcere e trascorrerà il resto della sua vita in un manicomio.
Ora, noi ovviamente non possiamo
in alcun modo giudicare sulla correttezza della perizia psichiatrica che
probabilmente è ineccepibile. Del resto, già per uno specialista il compito di
sondare nel cuore, nella mente, in generale nell’interiorità di un uomo, è
assai arduo, perché l’intimo di ogni uomo sfugge in larga misura agli altri e,
in una certa misura sfugge persino al soggetto che agisce (con buona pace delle
antropologie cartesiane e simil cartesiane che affermano l’autotrasparenza
dell’io): solo Dio lo può scrutare. Agostino diceva (anche in questo senso) che
Dio è “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso.
Senza dunque volerci affatto
pronunciare sulla sanità mentale di Breivik, rileviamo però che notizie di
questo genere hanno diversi effetti.
Da un lato possono terrorizzare
le persone. Infatti, viene da pensare che alcuni pazzi sono mine vaganti, non
sono innocui e possono fare stragi immense, soprattutto considerata la potenza
micidiale delle armi odierne, e purtroppo essi sono imprevedibili.
D’altro canto, la derubricazione
della strage di Breivik a fenomeno di follia ha anche l’effetto di
anestetizzare la domanda sul male, sulla malvagità, sugli abissi di perversità
che il cuore dell’uomo può raggiungere.
Questa anestetizzazione è un
processo che ha molte tappe. Per fare solo due esempi, uno remoto e un altro
recente, i manichei attribuivano gli atti umani malvagi ad una divinità
maligna, mentre Rousseau li ha ricondotti alla società corruttrice.
In queste due concezioni, ed in
altre che si potrebbero citare, è comune la deresponsabilizzazione del
soggetto, la negazione della libertà umana e, in definitiva, la rimozione del
male. Infatti, se l’uomo non agisce liberamente bensì è agito da altri (da una
divinità malvagia, dalla società, dalla follia, ecc.), allora egli non sceglie
e, se non sceglie, il male morale non esiste, perché si può imputare un’azione
a qualcuno solo se egli la compie consapevolmente e volontariamente. Un evento,
sia pur molto negativo, prodotto da un animale, da una pianta o da un sasso non
può essere considerato un male morale.
Ora, oggigiorno il senso del male
è assai annacquato e di conseguenza anche il senso di colpa: tutte le azioni,
in fondo, vengono considerate buone purché siano espressione dello spontaneismo
individuale, purché il soggetto «si senta autentico». Va quasi tutto bene «se
mi sento di fare così». Quasi tutto, tranne certe azioni considerate (ancora
oggi) manifestamente atroci, perlomeno dai più: pedofilia, assassinio, stragi,
ecc.
Senonché, quando avviene un
delitto efferato, sui media non sono rari i commenti degli esperti di turno che
si affrettano a dire che il reo non era veramente libero e responsabile, che
bisogna scusarlo, ecc.
Anche il format dei talk show
contribuisce a questo processo di deresponsabilizzazione: l’idea che si possa e
si debba sempre discutere di tutto alla lunga produce la legittimazione anche
delle tesi più aberranti e configura, a ben vedere, un’apologia di reato.
Invece, almeno questi delitti
atroci dovrebbero scuotere le nostre coscienze dal loro torpore e farci
sbattere drammaticamente la testa contro il dato di fatto dell’esistenza del
male morale e perciò dovrebbero farci alacremente cercare di prevenirlo. Dovrebbero
perlomeno incentivarci a prevenire le nostre azioni malvagie mediante
l’autocoltivazione della nostra anima (e per far ciò i credenti possono
ricorrere anche ai sacramenti), assecondando l’imperituro monito già formulato
da Socrate. Infatti, se le uccisioni di Breivik sono state incolpevoli, noi
invece potremmo arrivare a compiere volontariamente cose atroci e potremmo
farlo consapevolmente. Immediatamente no, ma progressivamente sì, cioè se
ripetiamo degli atti malvagi, anche poco malvagi all’inizio, se non custodiamo
noi stessi e se lasciamo allignare e sedimentare cumulativamente nel nostro io
delle predisposizioni malvagie, le quali incominciano ad infiltrarsi e poi lo
infestano.
Infatti, come dice già
Aristotele, «a seconda di come ci comportiamo […] diveniamo gli uni giusti gli
altri ingiusti; […] Lo stesso avviene per i desideri e le ire: alcuni diventano
temperanti e miti, altri intemperanti e iracondi, per il fatto che nelle
medesime situazioni gli uni si comportano in un modo, gli altri in un altro. E
dunque, in una parola, le disposizioni morali derivano dalle azioni». Così, a
volte gli uomini arrivano a compiere cose mostruose cogliendone la malvagità, a
volte invece senza poterne più cogliere la malvagità, ma, in questi casi, il
loro stato di ignoranza è colpevole. È stato il compimento di tanti atti
malvagi, cominciando magari da quelli di lieve entità (gutta cavat lapidem),
ciò che ha progressivamente soffocato la consapevolezza e la coscienza morale.
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