Il medico salva, non uccide Parola di Travaglio di Andrea Tornielli, 05-12-2011,
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Venerdì scorso Il Fatto
quotidiano ha ospitato un botta e risposta sul suicidio assistito in relazione
al gesto di Lucio Magri, che è andato in Svizzera per sottoporsi all’eutanasia.
A confrontarsi sono stati il direttore della rivista MicroMega, Paolo Flores
d’Arcais e il giornalista Marco Travaglio. Il contributo di quest’ultimo,
intitolato «Il medico salva, non uccide», è particolarmente interessante.
Travaglio esordisce dicendo di
non voler giudicare Magri, ma aggiunge di considerare «orrenda ipocrisia» la
definizione di «suicidio assistito» che andrebbe invece chiamato «col suo vero
nome: “Omicidio del consenziente”». Travaglio ricorda che Magri «non era un
malato terminale, né tanto meno in coma vegetativo irreversibile tenuto
artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche
se depresso». E afferma di voler trattare l’argomento dal punto di vista logico, giuridico, deontologico e pratico.
«Dal punto di vista logico, non
si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno
di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma
proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne
incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole
farla finita, deve pensarci da sé».
«Dal punto di vista giuridico –
aggiunge Travaglio – c’è una barriera
insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione
da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste
attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro,
punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la
vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato
per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto
che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si
inizia e non si sa dove si finisce».
Dal punto di vista deontologico,
il giornalista parla del «giuramento di Ippocrate» considerandolo un «muro
invalicabile»: «Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della
salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò
con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni
mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e
impegno…».
«Come si può – osserva Travaglio
– chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare
di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe
molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo,
assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se
l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per
mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico».
Dal punto di vista pratico,
aggiunge il popolare giornalista, «gli impedimenti alla legalizzazione del
“suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede
un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di
patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna
patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile.
Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il
libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di
essere “suicidata”».
«E se poi un medico o un
infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita
richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato
momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso
la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico
che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva
chiesto di farla finita?».
«Se incontriamo per strada un
tizio che sta per buttarsi nel fiume – conclude Travaglio – che facciamo: lo
spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che
l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza
o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che
ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è
indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi
sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle
cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al
suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal
Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?».
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