PER UN'ANTROPOLOGIA DRAMMATICA - Lectio magistralis del cardinale
Angelo Scola, tenuta il 30 novembre scorso a Milano
ZI11120301 - 03/12/2011
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ROMA, sabato, 3 dicembre 2011
(ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la Lectio magistralis del cardinale Angelo
Scola, arcivescovo di Milano e Gran Cancelliere della Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale (FTIS), pronunciata il 30 novembre scorso a Milano
in occasione dell'inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà e dell’Istituto
Superiore di Scienze Religiose.
***
La Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale, della quale è ormai parte significativa l’Istituto Superiore di
Scienze religiose di cui celebriamo oggi cinquanta anni di fondazione,
rappresenta, da tempo, un punto di riferimento per la riflessione sul compito
della teologia e sul metodo teologico, condotta in dialogo critico con le
istanze dell’odierna travagliata condizione culturale.
Già la cosiddetta “Scuola di
Venegono”, ben radicata nella grande tradizione del pensiero cristiano, aveva
costituito, con i suoi illustri protagonisti, un centro di studio capace di
affrontare problematiche decisive di cui lo stesso Concilio Vaticano II si è
fatto interprete.
Il confronto con la modernità e i
suoi sviluppi più recenti, la rilettura del rapporto tra natura e grazia e la
cosiddetta quaestio del soprannaturale, la ricezione ed elaborazione attenta
del cristocentrismo e della singolarità dell’evento di Gesù Cristo, l’ampia
riflessione sull’epistemologia teologica e le questioni chiave legate al
ripensamento delle tematiche teologico fondamentali e teologico spirituali,
come anche a quelle della teologia biblica, morale e pastorale, sono solo
alcuni dei temi affrontati in questi anni con competenza e coraggio dalla
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
In questo quadro mi pare si
collochi il lavoro di ripensamento del Trattato di Antropologia Teologica messo
in atto dalla Facoltà, che ha trovato significativa espressione in tre numeri
monografici della rivista “Teologia”, pubblicati dal 2009 al 2011. La ricerca
ha evidenziato la necessità di una nuova svolta in antropologia che va ben
oltre l’attualizzazione terminologica in vista di una migliore efficacia
comunicativa. Tanto più che la riflessione antropologica messa in atto dalla
teologia che maggiormente si è imposta nei decenni passati, ha certamente dato
più spazio al dato antropologico in quanto tale, ma non ha sempre saputo
rendere conto della singolarità di Gesù Cristo. Non di rado si è esposta alla
deriva che von Balthasar aveva identificato come “riduzione antropologica”
della rivelazione stessa.
È stimolante l’intento dichiarato
dal primo dei tre quaderni citati. Mostra come la fede in Gesù Cristo,
rivelazione storica di Dio, non solo è in grado di apprezzare il valore del
soggetto umano, ma si documenta come condizione per la sua concreta ed
universale realizzazione.
Altrettanto importante è il
progetto che si profila nel quaderno successivo, in cui prende corpo la
necessità di un’antropologia della libertà incentrata sul tema dell’atto. In
tal modo l’evento di Gesù Cristo può mostrarsi come il momento fondativo
ontologico dell’antropologia.
In buona sintesi, si tratta di
tematizzare il carattere originario dell’evento di Cristo. Esso fonda la
possibilità per ogni uomo di compiere la propria libertà nella scoperta del
legame indissolubile tra verità e storia. È questa la strada di cui si fa
carico il terzo dei fascicoli citati, per giungere a ripensare l’architettura
fondamentale del trattato di antropologia teologica.
In questa prospettiva il
ripensamento messo in atto sfocia, quasi naturalmente, nell’idea che
un’antropologia adeguata sarà sempre un’antropologia “drammatica”.
Che cosa implica per una facoltà
teologica, per la comunità dei docenti e degli studenti, questo ripensamento
dell’antropologia teologica?
Uno degli aspetti più evidenti
consiste nel fatto che tale svolta spinge ad esplicitare il necessario
orizzonte pastorale proprio di ogni ricerca e sapere teologico. Purché la
parola “pastorale” venga trattenuta in tutta la sua densità teologica, evitando
di ridurla ad una applicazione da aggiungere dall’esterno all’indagine
teoretica della verità rivelata.
A tal proposito vorrei richiamare
ed elogiare il fatto che nella diocesi di Milano una significativa tradizione
chiede ai professori di teologia di recarsi, dal venerdì sera alla domenica
sera, in modo stabile e regolare, in qualità di collaboratori pastorali, in una
parrocchia assegnata dal Vescovo.
Questa scelta nasce dalla
consapevolezza che anche un teologo di professione ha bisogno, come ogni
fedele, di un rapporto diretto con il popolo di Dio. Per questo partecipa, in
modo organico e normale, alla vita di una precisa comunità cristiana. Da qui si
evince che già di per sé la verità possiede un carattere di testimonianza. Non
c’è conoscenza della realtà che non abbia questo carattere; come del resto non
c’è adeguato comunicarsi della verità senza testimonianza.
Credo che questo sia il senso
adeguato dell’affermazione che il Concilio Vaticano II è stato un Concilio
essenzialmente pastorale. Ciò infatti non sminuisce la sua portata dottrinale,
se mai l’acuisce. Lungi dall’indebolire il rigore della ricerca teoretica,
l’orizzonte pastorale della teologia le restituisce pienamente il suo carattere
“drammatico” e testimoniale.
Quanto detto domanda un impegno
rigoroso e costante da parte della Facoltà ad approfondire la sua funzione
nella vita della diocesi.
Certamente ogni autentica
esperienza ecclesiale possiede una dimensione teologica, dal momento che l’esperienza
cristiana è un frammento in cui brilla la presenza del Verbo incarnato.
Un maggior scambio tra la vita
della diocesi e il lavoro della Facoltà non comporta minimamente la perdita del
rigore.
Al contrario, mostrare
l’incidenza pastorale di un tale rigore metodologico, consente alla ricerca,
all’insegnamento e allo studio di contribuire efficacemente alla vita della
intera diocesi.
Sono convinto infatti che quanto
è stato approfondito in questi anni dalla Facoltà meriti di essere maggiormente
conosciuto e recepito da tutta la nostra realtà ecclesiale. Questo
probabilmente esige una più grande attenzione nel comunicare e farsi
comprendere dagli interlocutori.
A questo intrinseco nesso tra
ricerca teologica e azione pastorale richiama del resto la stessa storia della
teologia. Balthasar nel suo celeberrimo saggio su teologia e santità ha
sottolineato con forza come, soprattutto nel primo millennio, i grandi santi
furono, al contempo, grandi dottori e grandi pastori: pastores et doctores,
convergono, come personalità “totali”, in un'unica figura di santità.
Agostino o Ambrogio in Occidente,
Crisostomo o Basilio in Oriente ci mostrano come la cura pastorale abbia
arricchito la riflessione teologica e come la speculazione abbia reso più
incidente, attenta, ferma e coraggiosa l’azione pastorale.
Il recupero di questa unità passa
attraverso la piena assunzione del carattere “drammatico” dell’umana libertà,
attraverso la quale la testimonianza dell’evento salvifico di Gesù Cristo
diviene persuasiva anche per l’uomo di oggi. Questi, forse più di quello di
ieri, sente vibrare, per quanto in modo confuso e contraddittorio, nel proprio
cuore quella “inquietudine” di agostiniana memoria che trova riposo solo nel
Verbo fatto carne.
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