Se la Cassazione decreta la fine della civiltà di Tommaso Scandroglio, 02-12-2011,
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La storia che riportiamo qui di
seguito è emblematica della barbarie in cui sta precipitando la nostra società.
In estrema sintesi, la Cassazione ha condannato l'Università La Sapienza a
risarcire una coppia perché un esame non aveva scoperto che il loro bambino
sarebbe nato down. Doppio risarcimento: patrimoniale per i soldi spesi
nell'assistenza di questo bambino e morale per la sofferenza di avere un figlio
handicappato. Leggerete tutti i dettagli in questo articolo, ma la gravità
della sentenza unita all'indifferenza con cui è stata accolta sui media, fanno
capire l'urgenza di una battaglia culturale contro l'aborto quale quella che
abbiamo iniziato e di cui parleremo domani, 3 dicembre, nell'incontro a Milano
in cui si festeggia anche il primo anno di vita de La Bussola
Quotidiana.Contrariamente a quanto previsto, non sarà con noi Giuliano Ferrara,
per motivi di salute. Ci dispiace ovviamente per questa assenza, ma ciò non
toglie nulla all'importanza e alla deterrminazione in questa battaglia, che ha
due scopi essenziali: affermare la realtà (della vita umana) contro l'ideologia
(che la vorrebbe sopprimere); porre le basi per costruire una società giusta e
pacifica. Ne parleremo domani, ma ci torneremo ancora nei prossimi giorni su La
Bussola Quotidiana. (R.Cas.)
Maurizio e Marina aspettano una
bambina. Quando viene alla luce nel marzo del 1989 scoprono che è affetta dalla
sindrome di Down. I medici non li avevano informati di questo, altrimenti
avrebbero deciso di abortire. Si risolvono di chiedere i danni e, dopo corsi e
ricorsi, ieri la Cassazione ha dato ragione alla coppia. La sentenza stabilisce
che l’Università La Sapienza di Roma, a cui fa capo la clinica ove si sono
rivolti i coniugi, deve risarcire loro i danni perché “non aveva informato la gestante
della oggettiva inaffidabilità dell’esito della funicolocentesi e quindi sulla
necessità di ripetere l’esame entro e non oltre la 24esima settimana”, termine
massimo, secondo i giudici, per poter abortire. Trattasi in buona sostanza di
risarcibilità da wrongful birth, da nascita sbagliata.
Quali beni sono stati lesi dalla
mancata e corretta informazione sullo stato di salute del nascituro? La salute
psichica della donna, la serenità di vita e i beni patrimoniali. Il danno che
colpisce il primo di questi beni si chiama “danno biologico” (Cass. sez. I civ.
10.01.2000/07.01.2000 n. 7713; Cass. Civ. 8.07.1994) e si sostanzia nel trauma
psicologico di mettere al mondo un figlio non voluto. Il danno esistenziale
invece va ad intaccare il benessere morale della coppia dato che per tutta la
vita dovranno prendersi cura di lui, saranno obbligati ad affrontare
preoccupazioni che altri genitori di figli normodotati non dovranno affrontare,
saranno costretti a superare ansie legate alla condizione particolare della
loro figlia, etc. (Corte d'Appello di Cagliari del 12 novembre 1998). L’ultimo
bene sacrificato è quello patrimoniale: pensiamo a tutte le spese per
l’educazione e la crescita di un figlio non voluto e affetto da un grave
handicap fisico e mentale (Tribunale di Cagliari 23.5.1995; App. Bologna
19.12.1991; Tribunale di Verona 15.10.1990). C’è chi si spinge a dire che
questi costi sono un vero e proprio danno emergente, cioè una perdita subita in
termini economici, come quando qualcuno ti tampona l’auto (Tribunale di
Cagliari del 3.2.1995). Sul danno patrimoniale la sentenza di ieri fa cenno
alla “gravità del sacrificio personale e la permanenza dell’assistenza di una
persona che abbisogna di continue cure, sorveglianza ed affetto”.
A questi beni pare che la recente
sentenza della Cassazione ne abbia aggiunto un altro: il bene
dell’autodeterminazione, della libertà personale. Infatti gli ermellini
scrivono che la madre ha il diritto di “poter decidere liberamente, anche
attraverso un’adeguata informazione sanitaria, la scelta dell’aborto
terapeutico o di rischiare una nascita a rischio genetico” (così anche Cass
.Civ. 1.12.1998 n. 12195; Cass. Civ., III Sezione, 24.03.1999, n. 2793; Trib.
Bergamo, 2 novembre 1995).
Alla luce della disciplina
prevista dalla legge 194 questa sentenza è illegittima? No, dato che la natura
del rapporto tra ospedale e gestante previsto dalla 194 è di natura
contrattuale, così me tiene a precisare la recente sentenza dalla Cassazione:
“la responsabilità dell’Università è di natura contrattuale” (stesso parere in
Cassazione 8.7.1994 n. 6494, Cg. 1995, 91; Cassazione 10.5.2002 n. 6735; Trib.
Cagliari, 23 febbraio 1995). Qui le questioni di morale, a sentir i giudici,
non c’entrano nulla. Qui la vicenda è semplice: si tratta solo ottemperare ad
alcuni oneri contrattuali. E come in ogni contratto che si rispetti colui che
fornisce un servizio deve debitamente informare l’altro contraente di ogni
particolare che riguarda il contratto stesso, compresi ovviamente i rischi. Se
non lo fa viene meno ad un suo obbligo giuridico e deve risarcire i danni.
Dunque la sentenza è in linea con quanto prevede la legge.
Qualche riflessione a margine. La
prima: il nascere, ci dicono i giudici non è sempre un bene. Dipende se sei
sano: i down di per se sono un danno da risarcire. Se poi i genitori si
comportano da eroi e chiudono un occhio allora non chiederanno i danni, ma
avrebbero tutto il diritto di farlo dato che le persone down sono
oggettivamente una lesione alla sfera patrimoniale, fisica e morale dei
genitori. Altrimenti perché sarebbe permesso alla donna abortire un bambino
down? L’eugenetica dunque assurge a rango di categoria giuridica.
Qualcuno obietterà: i giudici
applicano male la 194 che di suo non è eugenetica. Ciò è falso. Secondo la 194
la donna che va dal medico e dice: “Non voglio questo bambino perché è
malformato” non può abortire. Ma la donna che dice: “Non voglio questo bambino
malformato perché per me sarà un peso” può abortire. E’ chiaro che è una
sottigliezza di lana caprina: per la 194 la malformazione può essere motivo di
legittimo aborto solo se incide sulla salute psico-fisica della donna. La
giurisprudenza, sempre della Cassazione, a questo proposito rammenta che
"la sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla
salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare
l'aborto" (Cassazione Civile, sez. III, 14 luglio 2006, n. 16123;
Cassazione civile, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488). Tra parentesi invece
noi vogliamo ricordare che sta solo alla donna decidere se tale malformazione
inciderà sulla sua salute, non al medico. La questione è di lana caprina dato
che tutti coloro che non vogliono un figlio malato non lo vogliono perché
pensano che possa recare un danno al proprio benessere.
La 194 è una legge perfettamente
eugenetica – dal greco eu (bene) e gignomai (nasco) - perché in ultima istanza
permette di eliminare i figli imperfetti – o che potrebbero esserlo – cioè i
figli che “non nasceranno bene”. La lesione sulla salute della donna – che tra
l’altro può essere solo presunta e non accertata - non è la vera causa che
spinge la donna ad abortire bensì è l’effetto della consapevolezza che il
proprio figlio potrà avere un handicap. Questo è il vero motivo. Un motivo
squisitamente eugenetico.
Il riferimento alla salute della
donna è invece centrale per la giurisprudenza italiana. La Cassazione nel 2004
respinse un ricorso di una coppia che chiese il risarcimento a nome della
figlia nata handicappata. I giudici sostennero che non è configurabile in capo
al nascituro alcun "diritto a non nascere" o a "nascere
sano" (è il tema della wrongful life, le vite sbagliate). Se la coppia
avesse chiesto i danni perché l’omessa informazione sull’handicap della figlia
che stava per nascere avrebbe leso la salute della donna, avrebbe avuto il
risarcimento. Ma chiedere a nome della figlia i danni perché la figlia stessa
era infelice in quella condizione di vita è inutile. Le eventuali patologie o
disabilità rilevano esclusivamente nella misura in cui possano arrecare un
danno alla salute della donna. Insomma nella prospettiva perversa della 194 il
bambino malformato non conta davvero nulla. Il figlio con handicap non può
chiedere il risarcimento perché l’unica alternativa per non subire questi danni
sarebbe stato non nascere. La qual cosa è contraddittoria.
In capo al figlio si può
predicare solo un diritto a nascere, pur se con malformazioni o patologie
(Cassazione civile, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488). Però è un diritto che
vale poco o niente per due ragioni. Chi può far valere questo diritto? Cioè chi
può renderlo effettivo? La donna. E’ in mano sua il potere di vita e di morte
sul nascituro. Quindi il diritto alla vita da diritto indisponibile scolora in
diritto disponibile, a disposizione della madre. In secondo luogo sul diritto
alla vita del bambino prevale il diritto alla salute della donna (Corte Cost.
n. 27/75; Tribunale di Verona del 15.10.1990). Il bilanciamento degli interessi
in gioco è in mano ancora una volta alla donna: il piatto della bilancia può
pendere da una parte o dall’altra a seconda dell’arbitrio della donna, non
limitato da nessuna prescrizione normativa. Tra parentesi ricordiamo che in
realtà il bene “vita” e il bene “salute" non sono tra loro bilanciabili, perché
il primo pesa oggettivamente di più che il secondo.
La sentenza di ieri della
Cassazione, al pari di altre che l’hanno proceduta, poi potrà portare in futuro
a situazioni paradossali. Infatti in modo analogo tutti i genitori, anche con
figli normodotati, potranno chiedere a questi una volta divenuti maggiorenni il
risarcimento per le spese sostenute e per i dispiaceri che magari avranno dato
loro (brutti voti a scuola, litigi a casa, uso di droghe...). Quello che cambia
è il soggetto chiamato a rifondere i danni. Non più il medico dato che questo
non potrà prevedere simili comportamenti (ma un giorno con la lettura perfetta
del genoma forse arriveremo anche a questo), ma il figlio stesso. E così anche
la relazione tra genitori e figli sarà svilita ad un mero rapporto
contrattuale.
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