Chi tradisce la missione della Chiesa di Luigi Negri, Vescovo di San
Marino-Montefeltro, 26-03-2012, http://www.labussolaquotidiana.it
Le preoccupazioni che muovono
questo mio intervento non sono - come si vedrà - polemiche nei confronti di
nessuno. Voglio cercare di leggere una situazione che mostra gravi elementi di
preoccupazione che stanno avanti a noi; e con “noi” intendo il popolo cristiano
nella sua identità, nel suo bisogno di essere educato a raggiungere una
coscienza critica e sistematica della sua fede, e quindi in forza di questa
cultura affrontare e giudicare serenamente ma oggettivamente tutti i problemi
che la vita ci pone di fronte.
Ogni giorno noi – dico noi perché
per me è così – combattiamo questo terribile confronto tra la cultura della
vita e la cultura della morte. Il beato Giovanni Paolo II parlava di una vera e
propria battaglia escatologica. Siamo assaliti da ogni parte da una concezione
della vita – o per meglio dire, della persona umana - come di un individuo
proteso a realizzare il massimo di benessere con tutto, compresi i rapporti,
che sono tutti funzionali alla realizzazione del proprio benessere. E tali rapporti
durano in quanto e fin tanto che questo benessere viene assicurato, e durano
quali che siano questi rapporti che consentono il benessere.
Di fronte a questa cultura della
morte sta la cultura della vita. La cultura della vita non è un’ideologia né di
tipo religioso né di tipo etico o familiaristico. La battaglia per la cultura
della vita è l’esistenza di un popolo che vive intensamente la propria identità
umana nel cristianesimo. E vivendo questa identità umana offre la sua
esperienza di vita come un grande annunzio, una grande possibilità offerta a
tutti gli uomini, di uscire da quello che un grande filosofo tedesco definiva
“il sentiero polveroso del nulla”. Uscire da questo e cominciare a camminare
sul sentiero che porta alla vita, quella vita piena di cui il Signore è stato
portatore, e che ha in qualche modo identificato la pienezza storica della sua
missione: «Sono venuto perché abbiano la vita, e la abbiano piena».
In questo contesto la tentazione
di considerare la famiglia cristiana come un’opzione particolarissima,
un’opzione che nessuno metterebbe in discussione, un’opzione del tutto
particolare che non ha nessuna ampiezza umana e culturale, che non ha nessuna
capacità di giocare un ruolo nel dialogo con questo mondo, questa riduzione del
cristianesimo a un’opzione particolare costituisce un vero tradimento
dell’identità cristiana e della sua missione nel mondo.
Così anziché battere la strada
ampia e solenne, straordinaria – regale, avrebbero detto i nostri padri -,
anziché battere la strada regale della missione, della condizione della vita
dei nostri fratelli uomini, della proposta a loro di una umanità più autentica,
più decisamente vissuta, corriamo dietro alle infrastrutture o alle
particolarità - alle molte particolarità in cui si flette questo individualismo
consumista e materialista - cercando di trovare valori che non si possono
trovare perché nessuno li professa come tali.
L’omosessualità e
l’eterosessualità non stanno una di fronte all’altra come due possibili opzioni
con alcuni vantaggi e alcuni svantaggi; non stanno di fronte come se fosse
necessario per tutti, e quindi anche per i cristiani, armarsi di intelligenza e
di capacità di penetrazione per salvaguardare alcuni valori delle unioni gay.
Ad esempio l’amicizia: si fa un discorso sull’amicizia tra due partner dello
stesso sesso, senza rendersi conto che questa espressione – amicizia – copre un
aspetto certamente molto particolare che non è quello che viene in mente a chi
professa la sua omosessualità o a chi considera in un mondo come il nostro
l’esperienza della omosessualità.
L’esperienza omosessuale
considerata in qualche modo come una eguale esperienza di famiglia è
assolutamente insostenibile, perché l’esperienza dell'omosessualità – come a
certi livelli l’esperienza di una eterosessualità disordinata e immotivata – è
un aspetto del degrado mondano che sta praticamente archiviando i rapporti che
nascono da una gratuità vissuta, da una corresponsabilità in ordine alla
gestione delle grandi questioni della vita, di fronte alla paternità o alla
maternità come responsabilità inderogabile di fronte a Dio e di fronte alla
storia.
Invece di incrementare la
coscienza della situazione di questo mondo così ammalato di individualismo e di
consumismo e di proporre come alternativa viva un modo d’essere affezionati,
uomo e donna, nel grande orizzonte di una vera idealità umana e cristiana, di
una vera esperienza di un compimento l’uno nell’altro, di una dimensione di
gratuità che è la stessa dimensione dell’esistenza di Dio, andiamo alla ricerca
in modo sostanzialmente molto artificioso di aspetti di positività in
esperienze che il buon senso comune - ancor prima della retta ragione - ha
considerato non certo deprecabili e condannabili, ma sicuramente come
esperienze non autenticamente umane.
A chi nel mondo cattolico ed
ecclesiastico poco o tanto sostiene questa posizione, chiedo: perché
abbandonare la strada della evangelizzazione, fatta come offerta della vita
cristiana, come novità della vita di Cristo partecipata da coloro che vivono la
comunione ecclesiale e vi partecipano con tutta la loro libertà? Anziché questa
che è la strada maestra della vita cristiana, della presenza della Chiesa nel
mondo, perché correre dietro situazioni tutto sommato particolari che finiscono
per avere anche per questo nostro interessamento, più importanza esistenziale e storica di quanto non ne
abbiano obiettivamente?
Forse varrebbe la pena di
rileggere quelle lucidissime pagine di Jacques Maritain – che non era certo un
filosofo integralista - che ne “Il Contadino della Garonna” metteva in guardia
la Chiesa, ma innanzitutto l’ecclesiasticità, da una operazione che considerava
suicida: l’inginocchiarsi di fronte al mondo. La Chiesa tradisce se stessa - ma
tradisce anche l’uomo - quando invece di svolgere tutta la forza della sua
responsabilità missionaria, che è responsabilità ad un tempo culturale e
caritativa, si riduce a discettare di problemi psicologici, affettivi,
sessuali, stralciati dal contesto della vita vera e attiva e ridotti a
espressioni di presupposti che non hanno molte volte nessun fondamento reale e
quindi sostanzialmente diventano una posizione ideologica.
Giovanni Paolo II ci ha insegnato
dalla Redemptor Hominis in poi che la Chiesa non deve avere alcuna
preoccupazione di dialogo con le formulazioni ideologiche o socio-politiche, ma
deve avere come preoccupazione quella evangelizzazione ed educazione del popolo
cristiano che si attua poi come missione, perché la missione è
l’autorealizzazione della Chiesa. E in questo compito di autorealizzazione
incontra i problemi reali degli uomini, anche le difficoltà, anche gli aspetti
di assoluta particolarità, ma che assume non con la presunzione della
neutralità scientifica o filosofica o sociologica, li assume come parte viva di
una condivisione dentro la quale si possono legittimamente indicare vie di una
possibile soluzione esistenziale e sociale di tali problemi.
Invece di inseguire psicologismi
dobbiamo preoccuparci di rafforzare l’Identità della fede così come è stata
tematizzata da quel Catechismo della Chiesa cattolica che papa Benedetto XVI ha
posto come strumento fondamentale dell’Anno della fede. L’anno che abbiamo
davanti non è l’anno della rincorsa alle problematiche particolari, specifiche,
qualche volta patologiche. L’anno che abbiamo davanti è l’anno della fede, che
se si approfondisce incontra tutto e sa dare un contributo positivo alla
soluzione di tutti i problemi.
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