Studio asiatico: la
religione non serve per scongiurare la morte, Luca Pavani, 29 marzo, 2012,
http://www.uccronline.it
Secondo una visione naturalistica della religione, essa
avrebbe senso soltanto come consolazione verso la tragedia della morte (teoria
“del comfort”). L’uomo sarebbe religioso non perché Dio si sia reso
incontrabile nella storia, ma perché “l’invenzione di Dio” aiuterebbe la
persona a fuggire dall’idea della morte, a non temerla.
In poche parole siamo di fronte ad una fallacia argomentativa
in quanto si scambia arbitrariamente un possibile effetto con la causa. Va
detto comunque che certamente esiste chi, magari vecchio e malato, sceglie di
abbracciare la religione come motivo di consolazione. Ma, come ha giustamente
scritto Simone Weil, «la religione in quanto fonte di consolazione è un
ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione»
(Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953), cioè è un aiuto verso chi abbraccia
forme fideiste, è un pungolo che spinge a rivedere la propria posizione per
abbracciare il contenuto vero della fede. Anche perché, secondo l’antropologo
dell’Università di Oxford , Jonathan Lanman, «dal punto di vista psicologico,
abbiamo poche prove che le nostre menti crederanno in qualcosa solo perché sarebbe
confortante farlo».
Il messaggio cristiano non serve come consolazione, ma è
l’unico a rendere pienamente sensato vivere ora, dando un significato vero e adeguato “qui e
ora” (“hic et nunc”). Non c’è altro motivo della felicità nell’istante, del condurre
un’esistenza all’altezza della propria umanità. Come veniva riportato su
“Avvenire” , citando il teologo Giussani: «l’avvenimento cristiano non
identifica solo qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che
desta il presente (…). Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè
cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che
mi sta accadendo ora». Al cristiano interessa vivere fino in fondo l’istante,
nessuna consolazione. Se fosse vero che i cristiani sono concentrati solo
sull’”altra vita”, non si capirebbe perché abbiano creato tanta cultura nella
storia umana (musica, arte, scienza…). Come ha scritto il sempre ottimo Claudio
Magris, «il cristiano crede che il paradiso, una società perfetta realizzata
una volta per tutte, non sia possibile sulla terra, ma questo è di per sé un
fermento progressivo, che aiuta a resistere contro le delusioni che
puntualmente avvengono quando si attende una rivoluzione che risolva tutto e
per sempre». Inoltre, gli ha risposto il cardinale Agostini, prefetto emerito
della Congregazione per le Chiese Orientali, «c’è per ogni cristiano la
responsabilità di ciò che accade a lui e ai suoi fratelli, cosicché è chiamato
ad adoperarsi continuamente perché questa vita sia meno ingiusta [...]. Se ti
salvi non puoi farlo come se fossi solo, lo devi fare vivendo con gli altri ed
aiutando gli altri. Il cristiano è colui che annuncia; è missionario, e non può
ignorare la condizione degli altri, che è fatta di aspettative, di incertezze,
di negazioni. Questa è la condivisione, la responsabilità e la solidarietà con
il mondo». Altro che indifferenza per “questa vita”!
Tornando al tema principale, se la religione servisse davvero
per scongiurare il pensiero della morte (la cosiddetta “fuga religiosa”), non
si capisce perché i credenti spendano mediamente più soldi per prolungare la
loro vita in caso di malattia, come dimostra questa ricerca . In questi giorni
è stato pubblicato un altro interessante studio da parte di ricercatori dell’University
of Malaya i quali, intervistando circa 5000 studenti in Malesia, Turchia, e
Stati Uniti, hanno scoperto che le persone religiose (islamiche, in
particolare) temono maggiormente la morte di quelle non religiose. A questo
punto avrebbe dunque ragione chi sostiene che in realtà sia l’ateismo ad essere
consolatorio rispetto alla morte, sopratutto in chi ha vissuto o vuole vivere
una vita disordinata e “autoreferente”. La cosa certa è che l’irreligiosità
banalizza ogni fase dell’esistenza (“l’uomo non è nient’altro che..”, si sente
ripetere dagli ateologi) sopratutto la sua fine: verso questa interpretazione
vanno le ricerche in cui si mostra che i non credenti hanno elevati tassi di
suicidio, addirittura il doppio di chi crede in Dio.
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