La nostalgia globale di Federica Rampini, La Repubblica, 28 marzo 2012,
http://www.dirittiglobali.it
Nell´era delle migrazioni
"2.0", senza frontiere e senza distanze, il mal di casa è una vera e
propria malattia. E Internet, spesso, non aiuta. Mai prima d´ora l´umanità
aveva avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. I costi psicologici del
nomadismo planetario sono però in aumento. La nostalgia è diventata la nuova
patologia della globalizzazione. Sono molti gli espatriati che soffrono di
depressione. Ma pochi ne parlanoIn totale sono 215 milioni le persone che si
sono trasferite all´estero Ci sentiamo cosmopoliti, eppure non siamo così
facilmente sradicabiliSkype, Facebook e email danno l´illusione che basti poco
per annullare le distanze In tanti invece stanno peggio proprio dopo una
videochiamata con i propri familiari
È il vero male del secolo, la
nuova patologia diffusa dalla globalizzazione? Ha un nome antico:
"Nostalgia di casa". Nell´Ottocento, all´alba delle migrazioni
mondiali legate alla prima rivoluzione industriale, era un termine medico,
usato nelle riviste scientifiche come descrizione di una vera malattia. Oggi
viviamo nell´epoca delle migrazioni "2.0", un salto di civiltà ci ha
trasportati in un universo senza frontiere e senza distanze. Mai prima d´ora
l´umanità ha avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. Emigranti poveri
in fuga dal sottosviluppo o dalle guerre; espatriati di professione;
"cervelli" che si spostano all´estero in cerca di migliori
opportunità scientifiche. La tipologia è vasta, ma si scopre che non siamo così
facilmente sradicabili, esportabili, adattabili. I costi psicologici del
nomadismo globale sono in aumento. I numeri delle nuove migrazioni sono
impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella
storia. I dati della Organizzazione internazionale per le migrazioni rilevano
solo per gli Stati Uniti un flusso in ingresso superiore a un milione di nuovi
immigrati ogni anno. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene
censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell´ultimo
quindicennio. E questa cifra non include le migrazioni interne, che possono
comportare ugualmente spostamenti su grandi distanze, esperienze di
sradicamento estremo. Basti pensare ai 10 milioni di contadini cinesi che ogni
anno abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli costiere come
Pechino o Shanghai. Anche il lavoratore americano licenziato a Detroit che si
sposta per cercare un´occupazione in Arizona, fa un salto di qualche migliaio
di chilometri, a grande distanza da dov´è cresciuto e da dove vivono i suoi
affetti. Gli immigrati "interni" sono 740 milioni.
In totale, in questo istante un
miliardo di abitanti del pianeta vivono l´esperienza dell´emigrazione: un
essere umano su sette. E diventeremo molto più numerosi, ben presto. L´ultimo
sondaggio Gallup World Poll rivela infatti che sono un miliardo e cento milioni
coloro che «vogliono spostarsi temporaneamente all´estero nella speranza di
trovare un lavoro migliore». Altre 630 milioni di persone vorrebbero
«trasferirsi all´estero in modo permanente». Un terzo dell´umanità si sente
psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o
rassegnato a doversi rifare una vita "altrove". Ai due estremi del
ventaglio delle migrazioni, ci sono disperazione e libertà. Le diseguaglianze
crescenti aumentano la pressione per abbandonare i luoghi più miseri e
inospitali. Al tempo stesso è diventato più facile andarsene, e viviamo in una
cultura che esalta la mobilità come un valore positivo. Il giovane italiano
neolaureato, che ha assaggiato l´esperienza dell´estero con un programma
Erasmus di studio in una facoltà straniera, sente dire che «i migliori se ne
vanno», vede talenti che si affermano dopo avere spiccato il volo verso gli
Stati Uniti.
Ma è proprio vero che il XXI
secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili? Una
studiosa americana delle migrazioni, Susan Matt della Weber State University,
dimostra che è una forzatura. «Il cosmopolitismo - spiega la Matt - e cioè
l´idea che gli individui possono e debbono sentirsi a casa propria in ogni
angolo del mondo, risale nientemeno che all´Illuminismo. Solo ora però è
diventata senso comune, valore di massa, come un ingrediente costitutivo
dell´economia globale. Tuttavia dopo un decennio di ricerche sulle esperienze e
le emozioni degli immigrati, ho scoperto che molti di coloro che lasciano casa
in cerca di un futuro migliore finiscono per subìre uno spaesamento dagli
effetti depressivi. Pochi ne parlano apertamente». Gli effetti collaterali
possono variare a seconda dello status socio-professionale: non vivono la
stessa vita il messicano immigrato a Los Angeles per lavorare come cameriere o
giardiniere, e il giovane matematico italiano che ha vinto una cattedra a
Berkeley. La Matt però ha scoperto che la sindrome nostalgica è interclassista,
colpisce anche chi vive in condizioni migliori. «Skype, Facebook, le email e i
cellulari traggono in inganno - sostiene la ricercatrice - perché danno
l´illusione che migrare sia diventato indolore, che le conseguenze siano
irrilevanti perché ormai basta un clic sulla tastiera per cancellare le
distanze».
Le tecnologie hanno aiutato anche
i più poveri. Per l´espatriato di élite, già trent´anni fa viaggiare era
facile. Oggi con le compagnie aeree lowcost il volo intercontinentale è
accessibile a masse sempre più vaste. La videotelefonata internazionale
gratuita con Skype è nelle case di tutti, compresi i latinos che arrivano in
California per lavorare negli aranceti e nella raccolta dei pomodori. La
velocità di diffusione "democratica" di queste tecnologie è
strepitosa. Lo documenta una ricerca della fondazione Carnegie: ancora nel 2002
solo il 28% degli immigrati qui negli Stati Uniti telefonava ai familiari
almeno una volta alla settimana; oggi oltre il 66%. E tuttavia uno studio
pubblicato nella rivista scientifica Archives of General Psychiatry dimostra
che i messicani immigrati negli Usa hanno tassi di depressione superiori del
40% ai loro familiari rimasti in Messico. «Una imponente mole di ricerche -
conferma Susan Matt - documenta lo stesso fenomeno in altre comunità etniche.
Tutti i nuovi arrivati in America soffrono di alte percentuali di depressione e
sindromi da stress di acculturazione».
Nonostante il maggiore benessere
che spesso premia coloro che imboccano la strada dell´emigrazione, le percentuali
di ritorno sono più elevate di quanto si creda. «Dal 20% al 40% di tutti gli
immigrati negli Stati Uniti, finiscono per ritornare al paese d´origine». Tutto
ciò non stupiva affatto gli psicologi dell´Ottocento. Nell´epoca dei pionieri,
dopo la conquista del Far West e la febbre dell´oro (il primo boom
d´immigrazione globale verso la California nel 1848), i medici studiavano
sistematicamente le "malattie da emigranti", e il termine
"nostalgia" ricorreva nel vocabolario clinico, come una sindrome
precisa e talvolta fatale. Un articolo del 1887 sull´Evening Bulletin di San
Francisco descriveva in modo dettagliato e struggente gli ultimi giorni di vita
di un sacerdote irlandese, il reverendo McHale, «ucciso dai dolori della
nostalgia di casa». Le riviste mediche americane di quell´epoca erano piene di
una casistica simile. Parlare di nostalgia non era un tabù, nonostante che
l´America fosse stata costruita su una visione gloriosa e positiva della
mobilità, dello spirito di avventura, della voglia di conquista di nuovi
territori.
«Oggi invece - osserva Susan Matt
- le discussioni esplicite di questo fenomeno sono rare, anche nella comunità
scientifica. Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell´emigrare
siano un ostacolo imbarazzante, sulla strada del progresso e della prosperità
individuale. L´idea che sia facile sentirsi a casa propria in ogni angolo del
pianeta, deriva da una visione dell´umanità che celebra l´individuo solitario,
mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo
passato». In quanto all´illusione che le tecnologie abbiano abbattuto frontiere
e distanze, la psicologa messicana Maria Elena Rivera ha raggiunto la
conclusione opposta: molti suoi pazienti soffrono ancora più acutamente la
lontananza da casa, dopo avere "assaggiato" l´atmosfera di una cena
tra familiari e amici... osservata a mille chilometri di distanza sullo schermo
di un computer o di un´iPhone via Skype.
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