«Con i miei insegnanti, i pazienti terminali» - In dieci anni 2.333 pazienti
accompagnati nell’ultimo tratto Per la palliativista «la risposta spesso è solo
in una presenza» - di Antonella Goisis, medico
palliativista, Hospice Casa di cura
Beato Palazzolo Bergamo, Avvenire, 22 marzo 2012
La dimensione spirituale nella
cura è un argomento particolarmente caro al mio cuore, con il quale mi
confronto da dieci anni, nell’Hospice della Casa di Cura Beato Palazzolo di
Bergamo, primo aperto in città nel 2000. Qui sono morti 2.333 pazienti. 2.333 storie,
2.333 famiglie; 2.333 narrazioni. I miei pazienti sono diventati i miei
insegnanti, mi hanno permesso di condividere una quotidianità preziosa e
straordinaria. Ed è stato proprio uno di loro che, tanti anni fa, mi ha fatto
franare addosso il problema dell’attenzione alla spiritualità del malato. Bruno
era ancora giovane, devastato da metastasi ossee multiple provocate da un
tumore al polmone, che gli provocavano dolori indicibili; con i farmaci
analgesici riuscimmo a controllare il dolore al 100%. Eravamo soddisfatti del
risultato raggiunto, ma una mattina Bruno mi chiese se non era possibile
sentire un po’ di dolore, perché i pensieri erano ancora più dolorosi del
dolore medesimo, che avrebbe potuto distrarlo... Fu come un pugno nello stomaco, da quel giorno
ho capito che non basta sedare il dolore, come non basta controllare tutti gli
altri sintomi, perché qualcosa d’altro rimane per noi da fare. Qualcosa,
paradossalmente, reso più evidente dal controllo dei sintomi stessi: la
sofferenza emozionale del paziente, quella che viene da dentro, dal cuore
profondo, come direbbe Agostino. Una sofferenza infinita, umbratile, lacerante,
scaturita spesso da bisogni non quantificabili e difficilmente esprimibili, ma
che si palesano come non mai nella stagione della morte.
ll primo bisogno che il paziente
esprime è quello di essere accolto e accettato, chiunque egli sia,
un’accoglienza che mostra empatia e rispetto per la persona che ci troviamo di
fronte. Un altro bisogno è di essere ascoltato, dove «ascoltare – come ricorda
Eugenio Borgna – significa cercare, a volte disperatamente, di capire cosa si
nasconda negli stati d’animo, nella tristezza, nella malinconia, anche nella
gioia, degli altri. Ascoltare significa anche cogliere fino in fondo
l’importanza del linguaggio delle parole, del linguaggio del silenzio e di
quello dei volti, il linguaggio delle lacrime, il linguaggio del sorriso».
Comunicando la sua sofferenza, il malato – come insegna Cicely Saunders,
fondatrice del Movimento Hospice – ci pone un interrogativo angoscioso e
lacerante: ci chiede se può sentirsi ancora una persona, se ha ancora la
dignità di quello che era, se la sua vita è sempre degna di essere vissuta, se
ha conservato, malgrado le trasformazioni fisiche, il suo valore e la sua
umanità; da qui la necessità di fare emergere l’autonomia del malato, spesso
soffocata da sanitari e familiari.
Non è facile portare la sofferenza
dell’altro, talmente è specifica, unica, personale da non poter essere
pienamente compresa e convissuta. Ciò che può essere invece condiviso è
l’interrogativo di significato: perché? Qual è il senso? Da dove? Mi ricordo Maria: aveva 60 anni, era una donna
ancora molto bella, ma un cancro devastante allo stomaco la stava distruggendo;
era al corrente della sua situazione. Quel pomeriggio dovevo comunicarle che la
chemioterapia non aveva dato alcun risultato. Non avevo la più pallida idea di
come fare a dirglielo. Entrai nella stanza e sedetti con lei sul letto, ci
mettemmo a guardare fuori dalla finestra: era una bellissima giornata di primavera.
Rimanemmo lì per mezz’ora, senza dire nulla, Maria aveva capito tutto; poi io
l’abbracciai e uscii dalla stanza. Ricordo quel pomeriggio come se fosse ieri, anche
se sono passati 19 anni. Rimane la migliore esperienza di comunicazione e
condivisione della mia vita professionale. Sento spesso l’esigenza di sedermi,
con il mio paziente, davanti al Mistero; sì, perché, come sostiene padre
Turoldo «c’è un travaglio della ragione davanti al dolore e alla morte, il
travaglio per insistere, consistere, persistere, senza mai riuscire a
"essere" veramente, donde, alla fine, il suo desistere». Concordo con
Cicely Saunders quando dice che «la risposta cristiana al mistero della morte e
della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza». «Vegliate con me» significa,
soprattutto, semplicemente, «esserci», non fuggire, rimanere con qualcuno, a
dispetto del disagio profondo che il dolore e la sofferenza dell’altro
provocano in noi. Questo apre le porte alla speranza.
Ma cosa sperare nella stagione
della morte? Una risposta potrebbe essere data dalla definizione di salute
proposta da Giovanni Paolo II: «La salute è una tensione dinamica verso
l’armonia. Se questo è vero, allora la malattia, la morte, non sono il buio,
non sono la notte, ma una tappa di questa tensione che per noi cattolici è la
risurrezione». Che sia questa la nostra speranza? Ciò significa che per fare
questo lavoro, sono necessarie una passione, una sensibilità di base, sostenute
però, imprescindibilmente, da una formazione adeguata e continua; il
paternalismo buonistico assistenziale è da aborrire, mentre è da sostenere la passione
medico-scientifica di ricerca e aggiornamento accompagnata da un lavoro continuo
di ricerca interiore. Perché non possiamo dare quello che non abbiamo dentro.
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