L'inflessibile debolezza delle leggi italiane di Michele Ainis, 30
marzo 2012, http://www.corriere.it
C'è un che di talebano nel nostro
modo d'affrontare le questioni. O di qua o di là, senza vie di mezzo. In mezzo
c'è solo un campo di battaglia, percorso da furori ideologici, intransigenze,
spiriti belluini. Vale per i rapporti di lavoro, come la riforma dell'articolo
18. Per le materie politiche, come la nuova legge elettorale, dove è in corso
una sfida all'arma bianca fra seguaci del proporzionale e del maggioritario.
Per i temi etici, come il testamento biologico o le nozze gay. Uno vince,
l'altro perde.
Il bottino del vincitore è sempre
rinfoderato in una legge, tagliente come lama di coltello sulla gola
dell'esercito sconfitto.
Da qui norme rifiutate da una
buona metà della popolazione, e perciò scarsamente rispettate. Il seme
dell'illegalità trova anche in questo il suo terreno di coltura, in un sistema
di regole percepite come ingiuste, vessatorie. Da qui, inoltre, un ordinamento
punteggiato da miriadi di corpi contundenti, perché le leggi sono troppe, come
i combattimenti ingaggiati dai partiti. Da qui infine lo svuotamento della
funzione stessa della legge. La democrazia è compromesso, diceva Kelsen. La sua
principale istituzione - il Parlamento - serve per l'appunto a favorire il
dialogo fra le parti avverse. Sicché ogni legge dovrebbe riflettere questa
capacità d'ascolto, di comprensione delle ragioni altrui.
C'è modo di siglare una tregua
fra i guerrieri del diritto? Se non sul merito dei singoli provvedimenti
normativi, potremmo forse ottenerla rovesciando il metodo, le procedure
stabilite dalle leggi. E ponendole al servizio di tre nuove virtù cardinali:
flessibilità, provvisorietà, verificabilità. È il caso, per esempio, della
correzione dell'articolo 18. Quali argomenti la sorreggono? Rimuovere un
ostacolo agli investimenti produttivi, liberalizzare il mercato del lavoro per
moltiplicare le assunzioni, dicono i suoi sostenitori. Balle, ribattono i
difensori dello status quo: l'articolo 18 non c'entra un fico secco con la
piena occupazione. In questi termini non ne usciremo mai, salvo consultare il
sindacato degli astrologhi prima di battezzare la riforma. Ma potremmo uscirne
fissando una data di scadenza alla nuova disciplina: un anno, meglio due. E
chiedendo nel frattempo all'Istat di certificarne gli effetti sulla cifra dei
disoccupati. Se diminuiscono, la riforma viene adottata in pianta stabile;
altrimenti le lancette dell'orologio tornano all'indietro.
Un'idea bislacca? Mica tanto.
Venne in mente a Thomas Jefferson, tra i padri fondatori della democrazia
americana. Lui pensava che ogni legge, persino la Carta costituzionale, non
dovesse superare 19 anni di durata, lo spazio d'una generazione. E infatti
negli Stati Uniti è maturata ormai da tempo un'esperienza di sunset law , ossia
un diritto che «tramonta» se l'organo legislativo non lo conferma
espressamente. Leggi a termine, che s'accendono e si spengono come un cerino.
Dunque leggi sperimentali, peraltro col vantaggio di decongestionare
l'ordinamento normativo. In caso contrario le regole anacronistiche rimangono
in vigore per tutti i secoli a venire: e i morti afferrano i vivi. Le leggi
inutili indeboliscono quelle necessarie, diceva Montesquieu.
Anche in Italia, però, non siamo
a digiuno d'esperienze. La legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei consigli
d'amministrazione entrerà in vigore a luglio, garantendo alle donne un quinto
delle poltrone. Dal 2015 la percentuale diventerà un terzo, nel 2022 la legge
esaurirà la sua efficacia. Giusto così: le quote infliggono una deroga al
principio d'eguaglianza (formale), e ogni deroga è giocoforza temporanea,
altrimenti si trasforma in regola. Sarebbe irragionevole moltiplicare questo
modello normativo? Prendiamo il caso della legge elettorale: qui invece serve
un po' di stabilità, ma serve al contempo una normativa duttile, flessibile. E
quindi: voto di preferenza o liste bloccate? Ciascuna soluzione offre vantaggi
e svantaggi. Potremmo allora scegliere il modello danese delle liste variabili,
nel quale ogni partito decide il tipo di organizzazione delle liste con cui si
presenta agli elettori. Dopo di che gli elettori votano, giudicando
contestualmente il metodo applicato dai partiti.
Faremmo molto male a
sottovalutare il peso delle forme, delle procedure. Dopotutto il diritto si
riduce a questo: è una forma che conforma il nostro vivere comune. Quando non
riusciamo a trovare un accordo sulle cose, cerchiamolo almeno sulle regole con cui
facciamo le cose.
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