LA STORIA/ Simone, quell’“angelo” down che Francesca decise di non
abortire Redazione, giovedì 22 marzo 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Tre invece di due: una sigla, una
numerazione scientifica, una data scelta non casualmente. Ieri 21 marzo (21/3)
era la giornata mondiale dedicata alle persone con la sindrome di Down. Una
data non casuale perché i numeri riflettono quell'anomalia genetica che
comporta tre cromosomi invece dei due che normalmente si hanno. Ecco perché
questa giornata si è deciso di farla cadere il 21/3. Una sigla numerica fredda
che non dice nulla però dell'incredibile ricchezza e anche della sofferenza che
si cela dietro al mondo dei cosiddetti Down. Se ieri si è dato vita a tante
iniziative (in Italia promosse dal Coordinamento nazionale delle associazioni
CoorDown) come le campagne pubblicitarie di sensibilizzazione, in pochi o
nessuno hanno parlato di una realtà tristemente allarmante. Si contano oltre
38mila persone colpite dalla sindrome in Italia, è stato detto: se ne contano
molte di meno da quando sta diventando pratica assai diffusa abortire quando
viene segnalato che il bambino che si sta aspettando è colpito dalla sindrome.
IlSussidiario.net racconta due
storie, legate fra di loro. La prima, che tiene unito il tutto, è quella di
Alessandro e Francesca, due coniugi di Chiavari, Liguria, che anni fa furono
avvertiti dai medici che il figlio che stavano aspettando, il secondo, era
afflitto dalla sindrome di Down. Il parere di molti dei sanitari fu: le
consigliamo di abortire. Non lo fecero, e sebbene il bambino che nacque,
Simone, sarebbe morto a soli 6 anni per una serie di complicazioni aggiuntive,
non se ne sono mai pentiti. Anzi. Chiunque ha conosciuto Simone ricorda un
bambino costantemente felice, nonostante le sofferenze a cui doveva sottostare.
Simone infatti soffriva di una grave malformazione dell’esofago che lo
costringeva a nutrirsi attraverso un sondino e a subire molti interventi
chirurgici e lunghi ricoveri. Il padre ricorda "ricoveri di mesi e mesi,
operazioni una dopo l'altra, una di queste devastante". Un tentativo mal
riuscito, un esperimento da parte di alcuni medici che data la rarità del caso
sembrava lo usassero come cavia.
Alessandro ricorda quel giorno,
l'ultimo: "Quello del giugno 2005 era il periodo più bello. Le prime
camminate, le risate insieme, alla luce dei 6 anni appena compiuti. Quando
stava bene Simo era sempre allegro, pareva che gli strazi fisici fossero perle
di una collana lucente da mostrare con gioia. Sembrava la quiete dopo la
tempesta. Eppure il 30 giugno la morte. Inattesa, fulminante. I disperati
tentativi di rianimarlo, le mie labbra serrate alle sue, già fredde, in un
impossibile volontà di soffiargli la vita". Simone non ce la fa a
sopravvivere. "Ricordo con gli occhi pieni di lacrime il suo viso"
racconta Alessandro, "lo sguardo fisso che sembra dirmi arrenditi papà,
lasciami andare, lascia che si compia il mio destino". Intorno a Simone
anche la mamma e le due sorelline nate in seguito. "Vorrei sapere, vorrei
capire. Vorrei riaverlo" dice Alessandro.
"Grido nel silenzio e pretendo. Ma è un silenzio pieno quello. Non
è disperazione pura. E’ lì, lo sento. Cristo è lì. Ho l’illusione di non
riconoscerlo, ma è impossibile. Non mi arrendo, ma è lì per me non nonostante
me". Dopo sette anni da quel gironi, aggiunge Alessandro, non ho ancora
capito, ma non importa. Un giorno tutto sarà chiaro. "E’ una Grazia averlo
avuto, ne sono certo. Lo ripeto periodicamente, non come un disco incantato, io
lo so perché. E’ tutto per un disegno buono ma la mia natura di uomo meschino
fa a pugni, non si arrende. Ancora oggi. A volte, mi sembra di non resistere,
il cuore sembra lacerarsi ancora. Eppure mi viene da ringraziare di averlo
avuto".
Che quelle di Alessandro non
siano parole prive di concretezza e che un disegno buono c'è veramente lo
dimostra quanto accaduto dopo la morte di Simone. Proprio nello stesso modo con
cui lo hanno accompagnato nella sua esistenza terrena, i genitori di Simone e i
loro amici hanno messo su una piccola iniziativa, per far sì che la vita di
tutti sia sempre accolta. Si tratta dell'Associazione Simone Tanturli, che
combatte perché a tutti, anche ai bimbi che hanno problemi e handicap fisici,
sia dato il diritto di andare a scuola, e nella scuola che i genitori pensano
sia meglio per lui. Perché lo Stato italiano ancora fa discriminazione,
nonostante la Costituzione dica altrimenti, a proposito della libertà di
educazione. Una associazione che si impegna a trovare fondi per sostenere
bambini come Simone a scuola, nelle scuole, perché costa tantissimo avere
bambini del genere, e il costo ricade quasi interamente sulle spalle della
famiglia.
L'Associazione ha dato tanti
frutti: serate di festa, momenti condivisi con centinaia di persone, ma
soprattuto sta regalando una coscienza nuova a chi ne fa parte e la possibilità
di incontri impensati. Uno di questi avvenuto con alcuni carcerati di Chiavari,
incontrati casualmente mentre si stava facendo un momento pubblico di raccolta
fondi con la vendita di cioccolata calda. Erano fuori per un permesso speciale
di poche ore, si sono imbattuti negli Amici di Simone. Ne è nata una amicizia
che supera le mura del carcere e ha coinvolto molte di queste persone dalle
vite drammatiche a impegnarsi in prima persona per l'Associazione. Quando ce'è
da preparare una cena o una festa, loro, i carcerati, ci sono sempre.
Ma gli incontri sono di natura
diversa fra loro. Anche con una semplice lettera. Come quella che ha scritto la
mamma di Simone, Francesca, quando ha saputo di una ragazza che voleva abortire
il figlio che le era stato detto essere affetto da sindroem Down. Ne riportiamo
alcuni passaggi.
"Mio figlio Simone era
affetto da sindrome di Down, ma direi che questo era l’ultimo dei suoi problemi
perché la vera lotta della sua breve vita è stata contro una grave
malformazione dell’esofago che lo ha sempre costretto a nutrirsi attraverso un
sondino e lo ha costretto a subire molti interventi chirurgici e lunghi
ricoveri, tanto che non ha mai imparato né a parlare né a camminare. Il motivo
per cui tento di scriverti queste righe è che vorrei provare a raccontarti che
quando ho saputo che mio figlio aveva queste problematiche ero alla 23esima
settimana di gravidanza, avevo già una bimba di soli 2 anni e lo smarrimento e
la confusione erano davvero immensi, ma nessuno di quei tremendi pensieri
riusciva a contraddire una verità che sentivo nel profondo del mio cuore: lui
era il mio bambino. Quando la dottoressa terminò di comunicarmi la diagnosi mi
fece una domanda che mi gela le ossa ancora adesso che sono passati molti anni:
“Cosa vuole fare?”. Io in quell’istante, pur facendomela sotto, ho capito che
non c’era dolore, difetto, diversità, limite, imperfezione, che avrebbe mai
potuto portarmi a rispondere qualcos’altro, e le ho risposto: “Niente, aspetto
che nasca mio figlio”. Lei era stupita della mia risposta e si è complimentata
per il mio coraggio, come poi altre volte mi è capitato, ma io ti giuro che
ancor oggi non riesco a capire come possa volerci del coraggio ad amare tuo
figlio, a maggior ragione se è malato!
"Continuavo a pensare a
Sara, la mia primogenita, ma anche a tutti gli altri bambini che conoscevo,
belli, sani e intelligenti, e mi chiedevo: ma se si ammalassero gravemente per
qualche ragione e perdessero in tutto o in parte quelle qualità che fanno di
loro dei bambini “ben riusciti”? Cosa faremmo? La risposta va da sé: li
ameremmo, e se è possibile ancora di più. Saremmo al loro fianco in ogni istante
difficile, in ogni cosa nella quale non riescono, cercheremmo di aiutarli a
crescere, faremmo tutto quello che possiamo perché siano felici. In parole
povere faremmo semplicemente le mamme e i papà. Certo, soffrendo e lottando
forse un po’ di più. E allora perché il solo fatto che lui non fosse ancora
venuto alla luce doveva mettere in dubbio che fosse mio figlio e io la sua
mamma?
(…) Cara Maria, vorrei poterti raccontare
quanta gioia, quanta vera felicità, quanta commozione abbia portato Simone
nella nostra famiglia e tra i nostri amici, quanto sia valsa la pena di dire di
sì, di accogliere la sua esistenza anche se lui non era perfetto e il suo corpo
non era sano. Vorrei poterti raccontare che ricomincerei tutto da capo, se
potessi, che i suoi sorrisi, il suo chiamarmi mamma (e chiamare mamma tutto il
resto, compreso suo padre!), le sue manine che battevano quando era felice, i
suoi capricci, i suoi splendidi occhi lieti e fiduciosi, la sua voglia di
vivere, mi mancano immensamente e non rimpiango nulla se non il fatto che avrei
voluto averlo con me per sempre.
(…) Cara Maria, c’è un’evidenza
contro la quale spesso noi poveri uomini cerchiamo invano di combattere, non so
bene perché, ed è che la vita è assolutamente, inevitabilmente un dono. L’espressione
“aspettare un figlio” è di una struggente verità perché nella parola “attesa”
c’è tutta la nostra impotenza, il nostro bisogno di affidarci, la nostra
impossibilità di creare qualcosa da soli. Noi possiamo solo attendere. Una
mamma attende che arrivi il suo bambino, proprio quello e non un altro, e lui
attende nel silenzio e nel calduccio della pancia di essere abbracciato e
amato. So che queste parole sono dure, nella loro banalità, e immagino che tu
stia soffrendo, insieme a tuo marito, mentre ti chiedi come usare la tua
libertà; io posso solo suggerirti di usarla per dire di sì a questo dono, anche
se adesso non ti sembra tale. Sono certa che se dirai di sì nella tua vita si
riverserà un amore Infinito, che ti ripagherà di ogni fatica, e ne sono certa
perché me è successo esattamente questo".
(Paolo Vites)
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